lunedì 27 dicembre 2010

CARO GIORGIO

Quest’anno devo aver letto una cinquantina di libri. Non li ho contati, ma so che viaggio al ritmo di uno a settimana. Perciò quando scopro che tu ne hai letti 147, la mia identità di scrittore è scossa dalle fondamenta. Come ho potuto leggere un terzo dei tuoi libri, e fare il tuo stesso mestiere? Nemmeno io ho la televisione. Però passo diverse notti a giocare a briscola all’osteria. E vivo con una donna, forse questo mi toglie qualche altro libro rispetto a te (è un colpo basso, lo ammetto). Ma soprattutto, ho scoperto che mi piace moltissimo rileggere. Cominciare un libro nuovo mi dà meno piacere che riprenderne uno vecchio e molto amato. Se mi sono innamorato di un libro, sento il bisogno di rileggerlo due o tre volte, impararlo quasi a memoria. È come dire: meglio uscire con una ragazza sconosciuta o con la tua vecchia fiamma? Io sono per le vecchie fiamme.
Ma non ci raccontiamo balle, il problema della lettura ce l’ho. Per lunghi periodi, la maggior parte dei libri in cui m’imbatto non mi piace. Certe volte mi sento un lettore finito: diventerò come quelli che dicono “io non leggo romanzi”, e se ne fanno un vanto? Conosco diverse persone così, e alcune le stimo pure. La narrativa a loro non interessa. È come se ci vedessero il trucco, come quando diventi grande e smetti di farti fregare dai prestigiatori, e allora leggono soltanto libri che dicono qualcosa di vero sul mondo. A me sembra un destino tristissimo a cui sono condannato. Ma per fortuna, un paio di volte all’anno, arriva un nuovo scrittore a sconvolgermi la vita, farmi sentire come la prima volta in cui ho scoperto Hemingway o Salinger. Prego che continui a succedere per sempre.

E poi ho scritto, che cosa ho scritto? Ho finito un racconto che mi portavo dietro da un bel po’. Ne ho cominciato e finito un altro. E ne ho cominciato un altro ancora. Non sono un grafomane come te: aver lavorato a tre racconti per me è un primato, visto che in 14 anni ne ho scritti una ventina. Anche questo mi dà da pensare. Sarò diventato meno rigoroso, o finalmente la scrittura comincia a venirmi facile? Sinceramente, propendo per la prima. Sento che sto perdendo colpi. Una volta un racconto non era finito finché non lo trovavo perfetto (non vuol dire che lo fosse, ma io dopo mille riscritture non avrei più spostato una virgola). Ora sono sceso a compromessi con l’imperfezione. Sono diventato indulgente. La scrittura - la mia e quella degli altri - mi sembra difettosa in modo inevitabile, dunque perché impazzire cercando la parola giusta? Facciamo quello che riusciamo a fare e passiamo oltre. Allo stesso tempo, sono convinto che arrendersi ai propri limiti equivalga a decretare la propria morte di scrittore. Perciò resisto. Riscrivo. Faccio un viaggio di due ore in macchina tormentandomi su una frase che non torna. Dal primo gennaio ricomincio a cercare la perfezione, lo giuro.

Quanto al problema del tempo che passa, quest’anno ne ho compiuti trentadue. Lavoro da dieci, anche se non ho mai avuto cose come un ufficio o uno stipendio. Diciamo che da dieci anni ho la partita Iva. Da otto sto con la stessa donna. Da sei possiedo una casa e sono ufficialmente uno scrittore. Questi numeri si accumulano alle mie spalle, mi strappano via dalla giovinezza (l’età in cui non sai cosa vuoi fare, con chi vuoi stare, dove vuoi vivere) e mi catapultano nell’età adulta (in cui hai una famiglia, un lavoro, un posto nel mondo). Comunque adesso, con un po’ di distanza critica, posso dire che il primo libro pubblicato è stato il passaggio più importante della mia vita. Se dovessi trovare una soglia, sceglierei quella. Il giorno in cui il libro è uscito sono andato a rifarmi la carta d’identità, per correggere la voce professione. Prima sentivo di essere uno scrittore, però lo sapevo soltanto io. Poi il mondo l’ha riconosciuto. Il conflitto tra quello che ero dentro, e quello che gli altri vedevano da fuori, si è risolto di colpo. È stata una gran fortuna. Immagino ci sia gente che si porta dietro quel conflitto per tutta la vita. Però, è stata anche una condanna. Voglio dire: ora che sono uno scrittore, posso ancora sentirmi un essere umano puro e semplice? Oppure sono (sento di esistere) in quanto scrivo? Ho paura che per me sia così. E non mi piace mica tanto come idea.

Insomma quest’anno ho passato sei mesi in una baita in mezzo ai boschi, gli altri sei in un’osteria della Bovisa che tu conosci bene. È un’immagine perfetta della mia vita, spaccata in due tra quando scrivo e quando non scrivo. Quando non scrivo, come diceva Tondelli, io non mi sento una persona che sta facendo qualcosa, come guidare, cucinare, incontrare un amico: mi sento uno scrittore che non scrive. E non sono per nulla contento di sentirmi così, definito da una negazione. Non mi sembra giusto nei confronti degli altri, né delle potenzialità della mia vita. Preferirei, posando la penna, smettere di essere uno scrittore, tornare una persona pura e semplice, essere uno che prepara la polenta o incontra un amico. Invece sono lì e non ci sono. Sento sempre nelle orecchie la voce fuori campo di Willard, mentre scruta le strade di Saigon tra le asticelle della veneziana: “Quand’ero qui volevo essere a casa. E quand’ero a casa, pensavo soltanto a ritornare nella giungla”. Anche per me è così. Quando sono davanti al mio quaderno mi manca immensamente il genere umano, però poi, se mi ritrovo in mezzo agli altri, ho l’ossessione di isolarmi e scrivere. Anche per te è così? Nell’anno che arriva, se posso esprimere un desiderio, vorrei affrontare questo problema. Oppure andare alla ricerca di Kurtz, e farmi accogliere una volta per tutte nel suo cuore di tenebra.

sabato 11 dicembre 2010

QUESTO BACIO VADA AL MONDO INTERO

Il 7 agosto 1974 Philippe Petit compì la sua famosa impresa, attraversare il cielo tra le Torri Gemelle di New York sopra un cavo d’acciaio, a oltre 400 metri da terra. Era mattina presto. Lui e i suoi amici erano saliti sul tetto la sera prima, travestiti da operai, e avevano passato la notte a tendere il cavo da una torre all’altra. In realtà non fu un semplice attraversamento ma uno spettacolo di funambolismo: Petit restò sospeso lassù per più di mezz’ora, con la polizia che lo aspettava per arrestarlo, e camminò avanti e indietro, saltellò su una gamba sola, si sdraiò, si inchinò verso il pubblico gettando baci. Per quella mezz’ora la vita a Manhattan si fermò. La gente usciva per strada dagli uffici e dai negozi, si accalcava sui marciapiedi guardando in su, ammirata e sgomenta. Le torri erano state inaugurate da pochi mesi. Una scena molto simile, osservando la folla dall’alto, si sarebbe potuta vedere 27 anni dopo, un’altra mattina d’estate, e forse per questo qualcuno ha definito il libro di Colum McCann il migliore romanzo mai scritto sull’11 settembre, anche se non è un romanzo ma una raccolta di racconti, tutti ambientati nei primi anni Settanta. Il titolo originale era Let the Great World Spin - lascia che il grande mondo continui a vorticare - e forse non c’è una parola migliore per definire questo libro. Prima di leggerlo, penso che sia una buona idea vedere il documentario realizzato su Petit, Man on Wire. Poi aprite il libro e lasciatevi risucchiare dal vortice.

Un racconto parla di Corrigan, un frate irlandese innamorato dei poveri della terra, che parte da Dublino e trova nel Bronx il luogo in cui erigere la sua missione. Va ad abitare in una topaia, comincia a prendersi cura delle prostitute che battono sotto casa. Viene pestato e cacciato più volte dai loro protettori, ma ogni mattina torna e infine riesce a farsi accettare. Porta caffè d’inverno, procura eroina a chi non può farne a meno, offre il suo appartamento come riparo. Si affeziona molto a una ragazza di vent’anni, Jazzlyn, prostituta nera dalla sensualità dirompente, madre di due bambine.
Un altro racconto parla di Lara e Blaine, pittori in crisi. Stanno insieme. Per un certo periodo Blaine ha avuto successo a Manhattan, ma poi dai quadri sono arrivati i soldi e le droghe, che hanno bruciato tutto il resto. Così Lara e Blaine sono andati a disintossicarsi in una capanna nei boschi, distante un paio d’ore a nord di New York, cercando di ritrovare l’ispirazione. Passati alcuni mesi si sentono finalmente puliti, tornano per una notte in città, finiscono a farsi di cocaina e provocano un incidente in cui ha la peggio il furgone scassato che li precede, quello di Corrigan e Jazzlyn.
Un altro racconto ancora parla di Tillie, madre di Jazzlyn e prostituta lei stessa, che è andata in carcere al posto della figlia confessando un furto mai commesso. Dopo l’incidente è angosciata per le nipotine, e la sua necessità immediata diventa uscire di prigione e occuparsi di loro. Ma Tillie non è una persona diplomatica: ha insultato il giudice durante il processo, si è beccata una pena ulteriore per aver mollato un calcio in faccia a una sorvegliante. Un giorno riceve una visita da una sconosciuta: è Lara, divorata dai sensi di colpa, che ha lasciato Blaine e si è messa sulle tracce della ragazza morta, cercando un modo per espiare i suoi peccati.

E via così. Sono tredici racconti intrecciati dalle vite dei personaggi, tutti diversamente falliti eppure pieni di passione, nella New York sporca, violenta e tossica degli anni Settanta. E non solo si incontrano tra loro. Tutti quanti, a un certo punto della propria storia, attraversano quella mattina e quel luogo, il 7 agosto 1974, alzano gli occhi al cielo e per un breve istante sono toccati dalla grazia. Perché quella del funambolo non è una provocazione, è un’opera d’arte. La città lì sotto sta toccando il fondo della miseria umana. E lui, sospeso per aria in una tuta nera, ha deciso di mostrarle che cos’è la bellezza.

Si ritrovarono in capannelli accanto ai semafori di Church e Dey Street; o raccolti sotto la tenda del negozio di Sam il barbiere o accalcati all’ingresso di Charlie’s Audio. Un piccolo teatro di uomini e donne si stringeva contro l’inferriata della cappella di St. Paul, altri sgomitavano per farsi spazio alle finestre del Woolworth Building. Avvocati. Ragazzi d’ascensore. Medici. Addetti alle pulizie o camerieri. Commercianti di diamanti. Pescivendoli. Puttane in jeans tristissimi. Ciascuno rassicurato dalla presenza del vicino. Stenografe. Operatori finanziari. Fattorini. Un fabbro nel suo furgone all’angolo tra Dey e Broadway. Un portalettere in bicicletta appoggiato a un lampione sulla West. Un alcolista paonazzo alla ricerca del primo goccio del mattino.
L’uomo si era sollevato dall’inchino e reggeva tra le mani una lunga barra sottile, la scuoteva soppesandola, facendola oscillare su e giù nell’aria, una lunga barra nera, così flessuosa che le estremità ondeggiavano, e aveva lo sguardo fisso sulla torre di fronte, ancora fasciata nelle impalcature, come un ferito in attesa di soccorso, e finalmente il cavo ai suoi piedi acquistò un senso agli occhi di tutti, e da quel momento niente al mondo li avrebbe potuti allontanare da lì, nessun caffè del mattino, nessuna sigaretta in sala riunioni, nessun passo felpato sulla moquette. L’attesa era diventata magica, e tutti lo osservavano mentre sollevava il piede fasciato in una scarpetta nera come un uomo in procinto di entrare nell’acqua calda e grigia. Sotto, gli spettatori inspirarono all’unisono.
L’aria parve improvvisamente condivisa. L’uomo lassù era come una parola a tutti nota, sebbene nessuno l’avesse mai udita.

E lui entrò nel vuoto.

***
Colum McCann, Questo bacio vada al mondo intero
Traduzione di Marinella Magrì, Rizzoli 2010