lunedì 22 marzo 2010

THE PARIS REVIEW - IL LIBRO


The Paris Review è il nome di una rivista letteraria fondata da un gruppo di scrittori e intellettuali nel 1953. In quegli anni a Parigi esisteva una giovane comunità americana: sulle rive della Senna si incrociavano soldati, musicisti jazz, artisti e poeti che avevano attraversato l’Atlantico in cerca della loro bohème. A New York fioriva la beat generation, a Roma la dolce vita. Anche nella Ville Lumière scorreva la corrente del dopoguerra: era di nuovo possibile incontrarsi, tirare tardi nei bar, cantare per strada, scrivere tutte le parole proibite, rifiutare la morale dei padri e inventarsene una nuova. In questo clima, sette ragazzi sui venticinque anni fondarono una rivista che, secondo il primo editoriale-manifesto, intendeva ridare la parola a narratori e poeti, togliendola ai critici. Non avrebbe dovuto parlare di letteratura contemporanea ma farla, diventando essa stessa letteratura: un’idea che oggi è comune in America e che non si è mai affermata qui da noi. In Italia le riviste di questo tipo esistono, e in qualche caso sono fatte molto bene, ma non superano le dimensioni delle fanzine. Non so perché. Forse dovrei chiederlo ai miei amici che fanno le riviste letterarie. Se passate di qua provate a spiegarmelo?

In ogni caso, da 57 anni la Paris Review pubblica racconti e poesie dei più grandi narratori e poeti in lingua inglese. Quelli che lo sono già e quelli che lo diventeranno. Perché accanto alle collaborazioni di autori già affermati c’è un continuo lavoro di ricerca, con un intero ufficio di lettori e la garanzia che tutti i testi giunti in redazione verranno letti e valutati. (Rick Moody raccontava la trafila epistolare che un aspirante scrittore come lui aveva dovuto superare alla Paris Review: prima le lettere di rifiuto prestampate, poi le lettere prestampate con un nota scritta a mano, poi una vera lettera in cui un caporedattore diceva “non riteniamo pubblicabile il racconto in questione, ma siamo interessati a ricevere altro suo materiale”.) E poi le interviste agli scrittori, la lunga serie The art of fiction da cui sono passati tutti, da Ernest Hemingway a Paul Auster e da Dorothy Parker ad Alice Munro.

Ora l’editore Fandango sta portando avanti un’opera da medaglia al valore, con la pubblicazione in italiano di alcune antologie che raccolgono il meglio della rivista. Il primo volume, l’anno scorso, era dedicato alle interviste. Questa settimana invece è uscito The Paris Review - Il libro. Una bibbia di 1092 pagine che ha per sottotitolo Guerra, Sgomento, Morte, Pazzia, Sesso, Amore, Tradimento, Intossicazione, Capriccio, Orrore, Dio, Cena, Baseball, Viaggio, Scrittura, e qualsiasi altra cosa esista al mondo dal 1953. Per noi amanti della narrativa americana, oltre che un oggetto di culto, è l’unico modo per conoscere autori che in Italia non sono mai arrivati, o testi inediti dei nostri scrittori preferiti. L’ho cominciato ieri, vorrei che non finisse più. Ogni testo mi provoca la reazione che Bernard Cooper descrive ottimamente a pagina 68, nel suo racconto L’arte del sospiro.

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Ascoltate da vicino: i polmoni dei miei antenati pompano come soffietti, gli uomini trascinano barche sulle banchine del Volga, le donne trasportano ceste di pane di segale e luccio. E alla fine di ogni giorno, allungano le mani esauste su un panetto abbrustolito; e i loro a-ah fanno condensa nel freddo dell’aria russa, come dei grazie per il tepore e per la vodka pungente.

In ogni singolo attimo devono esserci migliaia di sospiri. Un uomo a Milwaukee palpita e trema, e benedice la seconda moglie, che non è troppo timida per leccargli le dita dei piedi. Un giudice a Monaco geme di piacere assaggiando di nuovo il lucente bratwurst che mangiava da piccolo. Ogni giorno, sospiri senza senso escono dal petto di bambini dell’asilo, istruttori di guida, esperti di anatomia forense, contabili statali qualificati, igienisti dentali, tanto per dirne alcuni. I sospiri dei vedovi e delle vedove sono probabilmente i responsabili di una porzione significativa del diossido di carbonio rilasciato nell’atmosfera. Ogni volta che una cintura viene tolta, un piede immerso in una vasca, un bagno pubblico occupato su una strada solitaria... Pensereste che la mera velocità di tutto questo possa creare maestrali, scirocchi, uragani; far pullulare di frecce le mappe satellitari, far parlare i meteorologi a tremila all’ora, con le cravatte che gli sbattono al collo come bandiere.

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The Paris Review - Il libro. Traduzione di Arianna Giorgia Bonazzi, Martino Gozzi, Alessandra Osti. Fandango 2010 (euro 29,50)

sabato 20 marzo 2010

NEWYORKNESS

un uomo di new york è
fermo all'incrocio
sorride a un pompiere aggrappato
alla scala della sua autopompa
l'autopompa passa tra di noi
svolta lenta all'incrocio
torna verso la stazione dei pompieri
io sono in un taxi bloccato nel traffico
sorrido all’uomo sorridente
lui annuisce cortese
riconosciamo nell’altro la nostra
newyorkesità

(Grace Paley)

mercoledì 17 marzo 2010

NOI

Vediamo se qualche lettore mi aiuta. Sto mettendo a posto una lezione che è il mio cavallo di battaglia, quella sul narratore collettivo. Ovvero: scrivere usando la prima persona plurale. Da un po’ di tempo scavo nella mia biblioteca alla ricerca di libri da portare a esempio, romanzi e racconti in cui il noi stia a indicare soggetti collettivi diversi, e a svolgere diverse funzioni narrative. Vorrei comporre una piccola antologia sul tema. Ecco quello che ho trovato finora.
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Gustave Flaubert, Madame Bovary (1856)
Capitolo 1
Stavamo nell’aula di studio quando entrò il preside seguito da uno nuovo, e da un bidello che portava un grosso banco. Quelli che dormivano si svegliarono, e tutti si alzarono in piedi, come colti in pieno lavoro. Il preside ci fece segno di metterci a sedere.
Soggetto: la classe di Charles Bovary.
Funzione del noi: emarginazione da un gruppo, isolamento sociale.
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Ernest Hemingway, Addio alle armi (1929)
Capitolo 1
Sul finire di quell’estate abitavamo in un villaggio dove al di là del fiume e della pianura si vedevano i monti. Nel letto del fiume ciottoli e ghiaia erano asciutti e bianchi nel sole e l’acqua correva limpida e azzurra nei canali. La pianura era ancora ricca di messi, aveva molti frutteti e in fondo salivano le montagne brune e aride. Si combatteva lassù, di notte scorgevamo le vampe dei cannoni.
Soggetto: una brigata dell’esercito italiano.
Funzione del noi: appartenenza a un gruppo, spirito di corpo.
Capitolo 37
Quell'autunno la neve si fece aspettare, abitavamo in una casa di legno bruna nella pineta addossata alla montagna, di notte gelava e trovavamo un sottile strato di ghiaccio sulle due brocche la mattina. Seduti sul letto a mangiare, vedevamo il lago e i monti oltre il lago sulla riva francese e sotto le cime segnate di neve l'acqua era d'un colore grigio-azzurro d'acciaio.
Soggetto: una coppia.
Funzione del noi: la famiglia in contrapposizione all'esercito, dopo aver disertato. Affetto coniugale vs. spirito di corpo.
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John Cheever, Addio fratello mio (1951)
Racconto
La nostra è una famiglia che è sempre stata spiritualmente molto legata. Nostro padre è morto annegato in un incidente in barca a vela, quando noi eravamo ancora ragazzi, e nostra madre ha sempre sottolineato che i nostri rapporti famigliari hanno una sorta di stabilità che non ritroveremo mai più altrove.
Soggetto: una famiglia borghese.
Funzione del noi: senso di unità famigliare.
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Agota Kristof, Il grande quaderno (1986)
Nell’edizione italiana è la prima parte della Trilogia della città di K.
Arriviamo dalla Grande Città. Abbiamo viaggiato tutta la notte. Nostra Madre ha gli occhi arrossati. Porta una grossa scatola di cartone, e noi due una piccola valigia a testa con i nostri vestiti, più il grosso dizionario di nostro Padre, che ci passiamo quando abbiamo le braccia stanche.
Soggetto: due gemelle.
Funzione del noi: identità doppia o simbiosi dei gemelli.
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Jeffrey Eugenides, Le vergini suicide (1993)
Tutto il romanzo.
Funerali, nella nostra cittadina, non ce n’erano mai stati, almeno dalla nostra nascita in poi. La maggioranza dei decessi risaliva alla seconda guerra mondiale, quando noi non esistevamo e nostro padre era la foto in bianco e nero di un giovanotto incredibilmente magro: papà su una pista di atterraggio costruita nella giungla, papà brufoloso e tatuato, papà che scriveva lettere d’amore alla ragazza che sarebbe diventata nostra madre.
Soggetto: una compagnia di ragazzini.
Funzione del noi: appartenenza a una generazione, a una classe sociale piccolo borghese e al genere maschile. Conformismo, nostalgia.
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Alessandro Baricco, Emmaus (2009)
La prima parte del romanzo.
Abbiamo tutti sedici, diciassette anni - ma senza saperlo veramente, è l’unica età che possiamo immaginare: a stento sappiamo il passato. Siamo molto normali, non è previsto altro piano che essere normali, è un’inclinazione che abbiamo ereditato nel sangue. Per generazioni le nostre famiglie hanno lavorato a limare la vita fino a toglierle ogni evidenza - qualsiasi asperità che potesse segnalarci all’occhio lontano.
Soggetto: un gruppo di amici.
Funzione del noi: appartenenza a una generazione, a una classe sociale piccolo borghese, al genere maschile e alla chiesa cattolica. Conformismo, identità religiosa.
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A chi mi indica altri brani prometto eterna riconoscenza.

venerdì 12 marzo 2010

NEW YORK E' UNA FINESTRA SENZA TENDE


Non posso dimenticare il mio arrivo in città. L’estate dei venticinque anni, uno zaino pieno di libri come sedile, e la corriera che emerge dal buio del Lincoln Tunnel. Anch’io cercavo qualcosa laggiù - le strade degli scrittori che amavo, la loro ispirazione segreta - ma non ero pronto all’accoglienza che mi aspettava. Sbarcando dal New Jersey, Manhattan apre il sipario all’improvviso: poco prima stavo contemplando un paesaggio di fabbriche e svincoli autostradali, e subito dopo ero tra i grattacieli. L’edificio davanti a me, nella fuga prospettica della 34a Strada, assomigliava del tutto all’Empire State Building. Non ho fatto in tempo ad abituarmi alla luce che l’autista ha accostato, ha annunciato il capolinea e mi ha scaricato a terra. Di colpo ho smesso di osservare la città nel finestrino - e di studiarla, immaginarla, desiderarla, perfino averne un po’ paura - e ho cominciato a farne parte.


Esce in questi giorni il libro a cui ho lavorato nell'ultimo anno. Domenica 21 marzo lo presento alla Scighera, dalle 21.30 in poi. Chi vuol venire a brindare con me è il benvenuto!

giovedì 4 marzo 2010

NON ABITIAMO PIU' QUI

Leggo Andre Dubus, Non abitiamo più qui.

Il libro è composto da tre racconti lunghi (60-100 pagine) pubblicati in America tra il 1975 e il 1980. Protagoniste sono sempre le stesse due coppie di sposi: Jack e Terry, Hank ed Edith. Hank e Jack sono amici, scrittori e adulteri. Hanno più o meno trent’anni, sono di origine irlandese e cattolica. Tradiscono la propria moglie con la moglie dell’altro o con le loro studentesse. Si sono sposati giovani per via di un bambino in arrivo, e ora fanno i conti con l’incombere della mezz’età e l’ostinazione mai sopita del desiderio sessuale. Hank è onesto con Edith fin dall’inizio: per lui il matrimonio è fondato sull’affetto reciproco e sull’allevamento dei figli, non sull’amore passionale né tanto meno sulla fedeltà. Jack invidia la coerenza dell’amico e cerca di guidare il suo rapporto con Terry nella stessa direzione. Le mogli capiscono il ritornello e cominciano a loro volta a trovarsi degli amanti, con effetti tragici: una tragedia che non fa morti ma lascia molti feriti, perché le coppie restano insieme, la loro vita procede su accettabili binari borghesi, ma è minata nelle fondamenta dalla sfiducia e dalla delusione.

Non abitiamo più qui è un bel libro sulla coppia e sulla scrittura, e sono contento di averlo detto. Spero di vedere presto altri libri di Dubus, che ha pubblicato in carriera cinque o sei raccolte, si è sempre dedicato alla forma del racconto lungo ed è morto a poco più di sessant’anni nel 1999. Aveva studiato con Richard Yates e si sente. C’è una corrente che scorre impetuosa tra alcuni scrittori americani in quel periodo chiave, i secondi anni Settanta, quando Cheever e Yates erano maestri ed esordivano autori come Chuck Kinder (1973), Richard Ford (1976), Tobias Wolff (1976), Raymond Carver (1976), e tutti hanno scritto della dissoluzione della famiglia, della ferocia della vita di coppia, della rottura tra genitori e figli e del tramonto del sogno americano. Non ho messo i nomi in ordine a caso. Nella prospettiva distorta della critica italiana, Carver fu il capofila di quella corrente, ed è il modello con cui bisogna confrontarsi parlando di quei temi, e della forma racconto. Nella storia della letteratura americana, che ignora le fortune di questo o quell’autore qui da noi, Carver fu invece uno del gruppo, e lui stesso si riconosceva come tale.

Fino a qui tutto bene. Poi leggo recensioni come questa, che cominciano così: “I minimalisti sono autori insoddisfatti e compiaciuti della loro insoddisfazione. Il più grande autore di racconti della seconda metà del ventesimo secolo non è stato Carver ma Andre Dubus” (detto da Dennis Lehane, autore di thriller, il quale ha tutto il diritto di esprime la sua opinione). Anche il buon Nicola Manuppelli, che curando questa raccolta ha fatto un ottimo lavoro, casca nella trappola e per parlare di Dubus parte da Carver, tirando fuori la questione dell’editor e mostrandoci come, mentre Carver fu un fenomeno estetico e probabilmente artefatto, Dubus era uno scrittore vero, non scendeva a compromessi, si sporcava con la vita.

Ora, io ho seguito personalmente cinque viaggi di autori americani in Italia. Ann Beattie, Rick Moody, Charles D’Ambrosio, Kevin Canty e Sam Lipsyte, tutti arrivati qui per presentare delle raccolte di racconti. Per il mio rapporto con minimum fax ho avuto la fortuna di accompagnarli nelle librerie e assisterli nelle interviste, e tutti sono stati stupefatti e un po’ delusi da una domanda che i giornalisti italiani facevano sempre. La domanda di rito per la precisione era questa: sei americano e scrivi racconti, pensi di essere l’erede di Carver? Oppure la sua variante: sei americano e scrivi racconti, ti consideri un minimalista? A questi critici, curatori e giornalisti bisognerebbe spiegare che l’equazione tra scrittore americano di racconti ed emulo di Carver denota una grande ignoranza, e un enorme provincialismo. Significa usare la piccola editoria italiana come lente per osservare il mondo. Significa ignorare Hemingway, Fitzgerald, Anderson, ignorare Salinger e Cheever e Yates, ignorare Flannery O’Connor e Grace Paley, Eudora Welty e Kathrine Mansfield, Donald Barthelme e Bernard Malamud, e potrei andare avanti per mezz’ora. È come se un romanziere italiano andasse a New York e gli venisse chiesto se si sente erede di Moravia, solo perché è l’unico contemporaneo che in America hanno tradotto. È come chiedere a una scrittrice giapponese che ne pensa di Banana Yoshimoto, perché conosciamo solo lei. Quando ad Ann Beattie a Milano fecero una domanda sulla sua parentela con Ellis e McInerney, che per noi sono “i minimalisti”, lei rispose sorridendo che quei due avevano vent’anni nel 1985, mentre il fenomeno risaliva a dieci anni prima, ad autori mai arrivati qui da noi. E poi chiese: come mai qui in Italia siete tanto fissati con il minimalismo, se non sapete nemmeno che cos’è? Ecco, quello di Carver è un problema tutto nostro. Per alcuni scrittori americani è un modello, per altri no, per la maggior parte di loro è uno dei tanti maestri. In Italia è diventato un modo di dire. Esce un nuovo scrittore di racconti? Ecco un nuovo Carver. Ne escono tanti? Piccoli Carver crescono. Il sospetto è queste persone abbiano letto solo Carver, e non siano assolutamente in grado di capire che cosa stiamo facendo.

Insomma, mi piacerebbe parlare dei legami tra Non abitiamo più qui e Revolutionary Road di Richard Yates, o Infiniti peccati di Richard Ford, o Lune di miele di Chuck Kinder, forse il libro in assoluto più vicino a questo. Ma non si può, bisogna fare la classifica del Miglior Scrittore di Racconti del (Secondo) Novecento. Che tristezza. Comunque leggetevi Dubus, ne vale la pena.