(questo pezzo è uscito su Montagne360)
Ormai da dieci anni affitto una baita a Estoul, in Valle d’Aosta, in mezzo a un pascolo che per tre mesi all’anno diventa una pista da sci. Come i montanari miei vicini salgo in primavera, ci abito per tutta l’estate e vado via in autunno, un po’ perché l’inverno rende la baita quasi impraticabile, un po’ perché lo sci non mi piace. Non nel senso che non mi diverte: ho imparato a sciare anch’io da bambino; ho riprovato una volta da grande scoprendo che sono ancora capace; ma qualcosa, nello sci di discesa, è contrario alla mia idea di rispetto per la montagna, incoerente con lo spirito con cui vivo lassù. Forse perché abitandoci vedo che cos’è una pista: per avere gli sciatori in una stagione sempre più breve, ormai ridotta a poche settimane tra gennaio e marzo, un versante della montagna è disboscato, spianato, percorso da condutture elettriche e idrauliche, sfigurato da impianti di risalita e cannoni per l’innevamento artificiale, cementificato da stazioni di partenza e d’arrivo, invaso da mezzi a motore. Ce la prendiamo con quelli che vanno in moto sui sentieri? Lo sci di discesa ha un impatto molto più violento sulla montagna. Non solo distrugge il paesaggio, ma consuma moltissima acqua, elettricità e gasolio. Vorrei perlomeno che gli sciatori lo sapessero. Perlomeno siamo consapevoli di quel che facciamo, poi possiamo decidere di farlo lo stesso (e prenderci le nostre responsabilità): lo sci di discesa è un modo antiecologico di andare in montagna.
Da suo abitante, conosco bene anche il rovescio della medaglia: Estoul sarebbe un paese abbandonato senza lo sci. Quei pochi fine settimana in cui, se c’è il sole, salgono migliaia di turisti per fare su e giù sulle nostre pistarelle, mantengono per tutto l’inverno trenta o quaranta persone. Tutti i miei amici in un modo o nell’altro lavorano con lo sci: i bigliettai, gli agenti di rinvio, i gattisti, gli addetti alla sicurezza e all’innevamento, i maestri di sci, i noleggiatori di materiali, i proprietari e i dipendenti di un bar, due ristoranti e due affittacamere. Credo di non conoscere nessuno che a Estoul non dipenda dallo sci. Forse solo Anna che ha ottant’anni, quattro mucche e un cane, lei sì starebbe lo stesso lassù senza gli sciatori.
Per cui il problema, oltre all’impatto dello sci, è il fatto che esista solo lo sci nelle nostre montagne spopolate di tutto il resto. E nel momento in cui mi oppongo ai progetti di nuove piste (ma parliamo anche di come rendere più ecologiche quelle vecchie), mi sento in dovere di immaginare un’altra economia possibile per il posto in cui abito. È uno dei grandi temi dei nostri tempi: come conciliare economia ed ecologia, rispetto della Terra e lavoro per l’uomo? Credo che cercare risposte ed esplorare possibilità sia il nostro compito di nuovi educatori, operatori culturali, imprenditori sociali della montagna. Ho scelto con cura queste parole che vengono dalla città, e che alla montagna sembrano estranee, perché penso che l’assenza di lavoro culturale e sociale faccia parte del suo impoverimento, e che proprio da qui si possa cominciare ad arricchirla e ripopolarla. Personalmente, insieme ad alcuni amici, ho fondato a Estoul un’associazione che organizza in estate un festival di arte, musica, e letteratura, e sto costruendo un rifugio alpino che vorrebbe diventare un presidio culturale d’alta quota. Ovvero un luogo in cui fare formazione (per esempio per i nuovi montanari o per chi vuole diventarlo), invitare i ragazzi delle scuole, ospitare artisti italiani e stranieri, proporre agli abitanti della valle un programma culturale e una sede in cui essi stessi possano partecipare alla vita associativa, e infine accogliere e far incontrare tra loro gli amanti della montagna. Che cosa c’entra tutto questo con l’economia? Io spero che c’entri, spero che sia un passo per portare alla montagna nuove idee, nuovi abitanti e nuovo lavoro, non pensandola più unicamente come luogo di divertimento e riposo, ma di rapporti sociali e produzione culturale. A me sembra che ne senta terribilmente la mancanza.
(fotografia di Loïc Seron)
mercoledì 9 maggio 2018
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Ciao Paolo, mi piacerebbe venire quest'estate al tuo festival a Estoul.Io sto scrivendo una tesi sul tuo romanzo le Otto Montagne. Mi piacerebbe contattarti per farti delle domande da inserire alla fine dell'elaborato. Ti lascio il mio indirizzo mail: mattia_9.1@alice.it oppure mattia.lanfranconi@studenti.unimi.it
RispondiEliminaComplimenti Paolo! Per quanto possa importare sono d'accordissimo su ogni parola.
RispondiEliminaBravo Paolo, concordo con te, io non io mai amato lo sci da discesa, invece ho sempre praticato il fondo, molto più rispettoso di natura e boschi, e del meraviglioso silenzio amato da noi montamari. Mi sa che quest' estate ti verremo a trovare ad Estoul! Ciao ciao!
RispondiEliminaCiao Paolo, scio e mi piace molto, però condivido tutto
RispondiEliminaNon chiedermi: ma allora perché lo fai? Non saprei risponderti
bella riflessione, progetto generoso e di grande respiro, ti auguro di vederlo prendere vita. Grazie per mantenere la tua semplicità nonostante la tanta strada fatta. Bello rivederti in Cascinet e magari ci sarà ancora occasione quest’estate tra le tue montagne. Sara
RispondiEliminaSalve,Paolo.
RispondiEliminaLa settimana scorsa sono riuscito a raggiungerti per chiederti qualche commento su Le otto montagne, a proposito di che sto scrivendo un paper per il mio corso all'università.
Oso insistere, pur sapendo quanto sei impegnato perchè sarebbe per me un onore potere aggiungere le tue risposte al paper e perchè so quanto esse avrebbero impressionato i miei insegnanti.
Mi incuriosisce conoscere le tue risposte a:
- qual è il tuo messaggio che vuoi trasmetere al lettore con i versi di Coleridge scelti per introdurre il romanzo?
- Per un matematico, il simbolismo dei numeri nel romanzo: otto montagne, tre capitoli, dodici quadri... a un senso?
- Nel mondo globale e consumista che abitiamo, il messaggio di Thoreau e il suo Walden è ancora valido?
- Le descrizioni della natura nel romanzo sembrano riferirsi allo stato d'animo dei personaggi. È una risorsa estilistica?
- I genitori di Pietro hanno una lingua propria e altrettanto hanno i montanari, il che causa invidia a Pietro. Sono i dialetti lingue più pure, meno contaminate, di quelle ufficiali?
- I tuoi libri sono stati tradotti a diverse lingue. Sicuramente alcune di quelle versioni le conosci. Che consiglio daresti a uno che, come me, vorrebbe diventare traduttore?
Grazie mille della tua attenzione.
Ciao ALberto, ecco qui:
RispondiEliminaQual è il tuo messaggio che vuoi trasmetere al lettore con i versi di Coleridge scelti per introdurre il romanzo?
Ho scoperto quei versi vedendo il film La mia Africa e poi andando a visitare la casa di Karen Blixen a Nairobi. Da lì si vedono le colline Ngong dove è sepolto l'amante di Karen, Denys Finch-Hatton, e sulla tomba di Denys sono incisi quei versi. Sono molto legato sia al libro che alla scrittrice, La mia Africa parla dell'amore di una donna per una terra che non è la sua, che non le potrà mai appartenere fino in fondo. Credo di avere lo stesso rapporto con la mia montagna. E nel verso “avrà pregato bene chi ha amato bene” sento qualcosa di vero sul nostro stare al mondo e sulla mia scrittura, potrei dire “avrà vissuto bene chi ha amato bene”, o anche “avrà scritto bene chi ha amato bene”. Infine, mi piace che ci sia una connessione tra il mio romanzo e la letteratura di mare, perché la montagna per me ha la stessa funzione che ha il mare in certi scrittori che ho amato.
- Per un matematico, il simbolismo dei numeri nel romanzo: otto montagne, tre capitoli, dodici quadri... a un senso?
Certo, ogni numero ha un senso per un matematico, non sarebbe capace di sceglierli a caso. L'8 mi ha inseguito fin dall'inizio della scrittura di questo libro: perché è il mio ottavo ma anche perché è un numero molto caro al buddismo. Otto è due alla terza: nella mia testa è un numero che contiene il due e il tre. Per cui tre parti da quattro capitoli ciascuna: mi pareva tutto giusto. E' importante per me sentire questa giustizia, quest'equilibrio nelle storie che scrivo.
- Nel mondo globale e consumista che abitiamo, il messaggio di Thoreau e il suo Walden è ancora valido?
Direi che è più valido che mai: tanti di noi sentono l'ingiustizia del modello di vita imperante, e in Thoreau si trovano tante idee rivoluzionarie per i suoi tempi come per i nostri. Per esempio l'idea di decrescita, l'idea che per essere più liberi una buona soluzione sia vivere più poveramente. Siamo talmente abituati a pensare che sia la ricchezza a renderci liberi! Invece leggi Thoreau e scopri che, se uno riduce i suoi bisogni fino a fare a meno del denaro, a quel punto non ha più padroni. L'ho sperimentato anch'io.
- Le descrizioni della natura nel romanzo sembrano riferirsi allo stato d'animo dei personaggi. È una risorsa estilistica?
No. Le descrizioni della montagna hanno a che fare con lo stato d'animo della montagna, se così vogliamo chiamare le stagioni, i cambiamenti del paesaggio, il tempo atmosferico di ogni giornata. Non ho voluto assolutamente che la montagna fosse allegoria o metafora di qualcos'altro. Poi è vero che le stagioni condizionano il nostro stato d'animo: si provano sensazioni molto diverse andando in montagna con la neve o in un giorno di gran vento o in una bella mattina d'estate. Forse la montagna governa i sentimenti e i pensieri di questi personaggi che ho raccontato.
- I genitori di Pietro hanno una lingua propria e altrettanto hanno i montanari, il che causa invidia a Pietro. Sono i dialetti lingue più pure, meno contaminate, di quelle ufficiali?
Non è questione di purezza o contaminazione (tutte le lingue sono contaminate, pure i dialetti) ma di quanto una lingua ti appartiene, quanto contiene della tua storia, dei tuoi affetti e del luogo in cui vivi. Questo è il rapporto con il dialetto che a Pietro manca. L'italiano non è la lingua dei suoi genitori né del suo amico, non di Milano né della montagna, dunque è una lingua un po' vuota per lui. Forse è solo la lingua dei libri, che pure hanno avuto grande importanza nella sua vita.
- I tuoi libri sono stati tradotti a diverse lingue. Sicuramente alcune di quelle versioni le conosci. Che consiglio daresti a uno che, come me, vorrebbe diventare traduttore?
Credo uno debba amare profondamente la lingua da cui vuole tradurre, amarla perfino più della sua, per qualche mistero difficilmente spiegabile. E' la caratteristica dei migliori traduttori che ho incontrato.
Caro Paolo, grazie tantissime della tua risposta, aprezzo molto l'informazione che mi hai dato. Ho imparato tanto. É molto valiosa. Concordo assolutMente con la tua visione del rapporto di ognuno di noi con la propria lingua.
EliminaMolto bella la spiegazione di come e quanto siamo legati alla natura.
Te ne ringrazio davvero. Continuerò a seguirti sul blog intanto non appare il tuo prossimo libro.
Grazie Alberto per gli spunti e grazie Paolo che gli hai risposto in modo così diretto.
EliminaDella risposta mi ha colpita la parte
***Non è questione di purezza o contaminazione (tutte le lingue sono contaminate, pure i dialetti) ma di quanto una lingua ti appartiene, quanto contiene della tua storia, dei tuoi affetti e del luogo in cui vivi. Questo è il rapporto con il dialetto che a Pietro manca. L'italiano non è la lingua dei suoi genitori né del suo amico, non di Milano né della montagna, dunque è una lingua un po' vuota per lui. Forse è solo la lingua dei libri, che pure hanno avuto grande importanza nella sua vita.***
Non riuscivo a immaginare perchè l'italiano potesse essere una 'lingua' vuota.
Ho provato a immaginare. Se dico 'sabbia' l'immagine mentale che mi viene subito è quella nel fondo di un ruscello o ai suoi bordi dove l'acqua sciacquetta, magari di un colore grigio argento di sìlice che scintilla nel sole e turbina con le bolle di risorgive, ma per un'altra persone può essere quella sulla riva del mare di un colore varigato dalle conchiglie frantumate, oppure una sabbia bianchissima oppure altre varietà. Mi sono detta 'come fa a essere vuota' la lingua italiana se mi permette di significare così tanto?
Poi ho pensato che non è univoco il vocabolo e se dico 'sabbia' a un'altra persona come può sapere che penso a quanto il ruscello porta?
E allora il dialetto per certi versi e come se fosse una sorta di "lingua km 0", dà i nomi a quanto circonda per quello che è lì, perlomeno abbastanza e, in effetti, così sì che contiene la tua storia, gli affetti che sono nati proproi lì con le persone che hanno vissuto e vivono lo stesso tessuto. Non so se ho capito il senso che volevi esprimere. Era così?
Se fosse così, però, da un lato mi lascia un sottile senso d'inquietudine (pace).
Sulle traduzioni del libro hai potuto conoscere i traduttori e visto che sono per te valide?...vorrei regalare le Otto Montagne al mio amico inglese che collabora per la costruzione di alcuni dispensari medici in Nepal, ho visto che è pubblicato ma ero ancora un filino incerta...
Buona quota
Serena
Ciao Serena, sì è così.
EliminaLa parola sabbia però è troppo neutra e non mi permette di fare il discorso che vorrei.
Parlando di lessico della montagna, pensa a questi gruppi di parole che per l'italiano sono sinonimi:
bosco-foresta
baita-malga-grangia
montanaro-malgaro-alpigiano
pianta-albero
accetta-ascia-scure
e moltissime altre. Solo la prima di ogni gruppo è usata nella mia montagna, lì nessuno direbbe che abito in una malga o in mezzo alla foresta, o che prendo la scure per tagliare un albero. C'è un italiano neutro, che io sento come “vuoto”, in cui una parola vale l'altra, e un italiano dei luoghi, che certo si mischia ai dialetti, che io sento come “reale”. È importante per me trovarlo nei libri, smetterei subito di leggere se in una storia incontrassi un malgaro in Valle d'Aosta. Ed è importante trovarlo nella mia scrittura, anche se non scrivo in dialetto.
Quanto alle traduzioni, quella inglese del mio libro è per forza di cose semplificata. Al contrario del francese, per esempio, l'inglese non ha il lessico della montagna: non c'è nessun equivalente alle parole montanaro (man of the mountains), alpeggio (mountain farm), toma (toma cheese), e così via. Tuttavia nei suoi limiti è una traduzione accurata, l'abbiamo controllata più volte da cima a fondo.
Caro Paolo sono un tuo lettore, in pochi mesi ho letto prima Le otto montagne, Il ragazzo selvatico(il libro che preferisco dei tuoi) e ora Sofia si veste sempre di nero. Oltre ad essere un tuo lettore sono un grandissimo amante dello sci. Che lo sci abbia un impatto sulla montagna, ricordo un tuo articolo su Repubblica la scorsa estate con foto del Lagazuoi con camion che trasportavano neve, non ci sono dubbi. Ma lo sci è anche un modo di vivere la montagna, di sentirla, di conoscerla. Gli sciatori non sono solo consumatori di discese come li definisci in una pagina di Le otto montagne. Io amo le montagne in cui scio. Il Sassongher a casa mia lo trovi ovunque. In camera da letto, in cucina, nei disegni con la mia bambina. Io come tanti altri delle montagne dove sciamo conosciamo la storia, le tradizioni dei luoghi, gli odori. La signora dove vado sempre ogni volta che mi vede dice: "Si vede proprio che lei ama questa valle non ci viene solo a sciare". Quando arrivi sul Forcelles e vedi quello spettacolo, vedi il Sassongher, ti rimane dentro. Te lo porti dentro. E guarda che la stessa cosa mi è successa con la Valtournenche e con il Cervino. E lo sci è bello perchè quando scendi un pò come quando corri o cammini ti immergi nella bellezza. Chi scia apprezza anche questo non sta solo a vedere quanti km ha fatto. Con stima.
RispondiEliminaCiao Nino, ti credo. Ma allora metti le pelli e scia salendo con le tue gambe, così non ti rendi responsabile della distruzione delle montagne che ami tanto. Un abbraccio.
RispondiEliminaMagari caro Paolo ad essere capace. A 40 anni imparare è complicato per mille ragioni. Ma ripeto lo sci non è solo consumo di territorio e impianti. Non è solo Marilleva, Sestriere, i palazzoni di Cervinia. Lo sci è anche passione e amore per la montagna. Sciare è sentire la montagna che poi ti rimane dentro sempre. Buon proseguimento e buon tutto.
RispondiEliminaNino, qui non si discute la sincerità del tuo amore. Il modo che hai scelto per andare in montagna è distruttivo, qualsiasi siano le piste che frequenti: sono sempre piloni, ruspe, cannoni e cemento. Ripeto: impara a sciare senza impianti, vedrai che bello (ho 40 anni anch'io e ho messo le pelli ai piedi per la prima volta due anni fa).
RispondiEliminaCiao Paolo.Sono un fotografo regista romano a Londra. Ho appena letto le otto montagne. Mi ha toccato profondamente e mi ha dato infinti spunti emotivi e visivi.Seguirò il blog e quando capiró esattamente perché questo libro mi ha commosso talmente ti faro qualche domanda . Grazie tantissimo e complimenti.
RispondiEliminaCiao Capitano,
RispondiEliminaconcordo e amplifico quanto da te scritto relativamente all'antropizzazione del paesaggio, collegando questo argomento anche a tutte quelle attività, sport, passioni che portano l'uomo a contatto con la natura. Penso ad esempio alla pesca ed alla caccia (e lo dico da ormai ex pescatore) oppure al rafting piuttosto che alla raccolta dei funghi : l'eccessiva innovazione tecnologica ha spezzato l'incantesimo che ci vedeva partecipi di quel mondo magico che è il fiume, il bosco, la montagna, dove entravamo "in punta di piedi" e senza chiedere permesso al comune ma chiedendo con il nostro silenzio rotto solo dal battito del nostro cuore, permesso a lei...la natura che oggi i più sfidano come se Lei fosse l'avversario e non il nostro Amico da custodire gelosamente. Grazie per il tuo continuare come un Lupo Solitario a cercare di educare un pubblico sempre più vasto al puro Amore per quello che ci circonda e che non è nostro.
Ciao Gabriele,
RispondiEliminaal di là del sentimento personale (simpatia o antipatia per chi va a pesca, in bici, a correre ecc.) a me pare importante tracciare una linea: tra chi va in montagna senza lasciar segno e chi modifica, anche profondamente, il paesaggio. Nel primo caso mi va bene tutto, al di là di quello che piace o non piace a me. Nel secondo sono molto critico.
Mi sono innamorata di un minuscolo paesino di valle, in Trentino Alto Adige. 164 abitanti all'ultimo censimento. Uno dei tanti paesi di passaggio, adagiata sui lati della montagna. Insulso per tanti, per me è l'unico posto in cui mi sento viva. La montagna non è per tutti. E spesso non è nemmeno per chi ci abita. In tanti abbandonano i paesi per mancanza di infrastrutture e si trasferiscono nei centri più grandi. Il mio paesino resiste grazie ad un albergo ad 1 stella, con bar e alimentari annesso. Una donna sola gestisce tutto. E' lunatica, permalosa e buona d'animo. Da una vecchia saletta ha costruito un centro ricreativo: proiettano film, fanno incontri, leggono libri e si impegnano con corsi di ogni genere.
RispondiEliminaLa montagna ha bisogno di questo: iniziative consapevoli, fatte da persone che la montagna la rispettino.
PS: Sto per iniziare il tuo libro. Spero di trovarci dentro una boccata di aria pura e il profumo del bosco.
Complimenti per il tuo lavoro.
Sto leggendo il tuo libro Le otto montagne e mi è venuta una gran nostalgia della Val d'Aosta; sono stata in Valpelline per due anni in vacanza con la famiglia in un piccolo campeggio quando il turismo di massa non era ancora arrivato in quella zona. Abbiamo fatto il percorso dei contrabbandieri che portava i montanari in Svizzera, la Conca di By sotto il Grand Combain. In quel luogo ho sentito il richiamo della montagna, e da allora lì ho lasciato il mio cuore.Oggi per motivi familiari ci rechiamo in Alto Adige, ma è tutta un'altra cosa, troppo turismo, preferisco ricordare quelle camminate sulle pietraie, immergere i piedi nelle acque gelide dei torrentelli e il tuo libro mi ha rifatto rivivere quelle sensazioni- Grazie
RispondiEliminaIo sogno la montagna da molto tempo e da quando ho letto i tuoi libri Le otto montagne, Il ragazzo selvatico ed anche se non è tuo Il leopardo delle nevi, devo dire che la cammino ancora più da vicino. Mi piacerebbe vedere le baite che descrivi e che hai descritto anche in questo articolo. Anche io ho letto il libro In to the wild di jan Krakauer e visto il film di SEan Pean ed ammiro molto la vicenda di Chris Mcandless. Io vivo in Umbria ed anche se è chiamata verde lo spazio per la selvatichezza è sempre minore. Un caro saluto. Davide Barbanera
RispondiEliminaHello Paolo!
RispondiEliminaI hope this finds you well. I’ll keep it short - I'm a big fan of your work - I read Eight mountains in one weekend. Growing up with beautiful summers in the mountains of Alto Adige in the small lodge of my grandparents at 2,000 meters, I deeply connected with your story and characters. I’ve been living in New York now since 7 years and I run a creative collective and advertising agency - https://johnxhannes.com/ - We do a lot of films and are partners with Anonymous Content, Super Prime Film and many others. I'd like to talk to you about some opportunities. Hit me up when you get a minute Hannes@johnxhannes.com. All the best from NYC. Ciao! H