(Questo pezzo è uscito su Robinson il 26 febbraio)
Provo un senso di meraviglia, e insieme di ritorno, entrando per la prima volta nella terra di Mario Rigoni Stern. Ritorno perché lo scrittore, della sua piccola patria, ha tracciato la mappa in moltissimi racconti a cui voglio bene, e meraviglia perché l'Altipiano è come un paese straniero dentro il Veneto della mia infanzia: la strada parte tra i capannoni industriali e i campi spogli, si lascia alle spalle la nebbia, la brina e il cemento della pianura d'inverno, e in pochi chilometri sale a mille metri d'altezza, in mezzo ai boschi e alla neve. Lassù supera un ultimo dosso e allora, davanti agli occhi, si apre un paesaggio del tutto nuovo. Non è la montagna a cui sono abituato: niente valli, cime, dirupi, gole tagliate dai torrenti, ma crinali dai profili dolci, colline scure di abeti e ai loro piedi, nelle conche, campi e paesi nella neve. Sembra un paesaggio boreale più che alpino, un Grande Nord che vigila severo sopra le nostre città di pianura. È lo stesso modo in cui ho sempre immaginato Mario Rigoni Stern.
Qualche tempo fa ho spedito il mio romanzo a sua moglie Anna, scrivendole che, se questo libro esiste, lo devo in gran parte a Mario, di cui mi ritengo un allievo. Lei mi ha mandato in risposta un biglietto gentile e allora, oggi, insieme a un amico la vado a trovare. Siamo partiti da Milano col buio per essere qui di buon mattino: attraversiamo il paese di Asiago e proseguiamo oltre, per una stradina che porta al limitare del bosco, verso la casa in cui Mario ha abitato dagli anni Sessanta in poi. L'ultima, sognata durante la guerra e costruita con le proprie mani, con l'orto fuori, la legnaia sul lato al sole e l'arboreto salvatico tutt'intorno, e dentro, “nel tepore, mia moglie, i miei libri, i miei quadri, il mio vino, i miei ricordi”.
Anna di questo rifugio è sempre stata la custode. Io ho perso entrambe le nonne troppo presto per ricordarmele, ma oggi avrebbero più o meno l'età di questa donna di novantacinque anni, lucida di testa e salda sulle gambe, capace di stringere la mano a un uomo e accoglierlo in casa sua. Tutto in lei – l'accento veneto, il grembiule a quadretti, lo chignon di capelli grigi ancora folti e spessi, perfino una certa durezza nei modi e nello sguardo – ha un'aria di famiglia per me. “Nevica?”, chiede. Non ancora, ma forse comincia. “Ieri sono passati due cervi”, dice, “sentivano la neve”. Le chiedo se ne ha mai cacciati perché so che è stata una gran tiratrice da ragazza, medaglia d'oro ai campionati nazionali in epoca fascista. Lei sorride e scuote la testa: piuma, non pelo. “Andavo con mio padre, da bambina, a vedere le covate dei forcelli. In dote quando mi sono sposata ho portato il 16 e il 22. Dopo ho smesso”. Il 16 e il 22 sono fucili e l'anno era il 1946: Anna e Mario avevano venticinque anni, lui appena tornato dal lager con poca carne sulle ossa e un manoscritto nella tasca della giacca. Ho ancora nel naso l'odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato...
Mario manca da questa casa da nove anni ormai, e mi guardo intorno cercando segni di quest'uomo che non ho mai incontrato, e che pure mi sembra di conoscere così bene. In un angolo, accanto al camino, c'è la scultura con cui lo ritrasse Augusto Murer, un soldato di bronzo che avanza a fatica, addosso un mantello o forse una coperta, gli stracci ai piedi. Alle pareti quadri di betulle, gli alberi preferiti insieme ai larici: il larice gli ricordava le montagne di casa, la betulla la steppa russa. Amava anche il faggio, per il fuoco: sento odore di fumo e tra poco scoprirò che di là, sotto la caffettiera, il legno brucia in una cucina economica.
Anna sta ancora parlando di fucili, del Bayard acquistato grazie al premio Viareggio del '53, l'anno del Sergente. Tre cose Mario comprò con quei soldi: “La radio, la cameretta dei figli, il Bayard”. Ne desiderava una quarta, e per caso tra i giurati del Viareggio c'era Adriano Olivetti, così durante la cerimonia gli chiese una macchina da scrivere di seconda mano. Olivetti rise. In quei giorni ad Asiago arrivò una Lettera 22 nuova fiammante, che Mario avrebbe usato per cinquant'anni. La casa, questa casa, sarebbe venuta dopo, nel '62. La progettò lui stesso, con la camera da letto a est e la cucina a ovest, “così la mattina c'era luce in camera, la sera in cucina”, lontano dal paese dove si chiedevano perché il loro ex alpino, impiegato del catasto, scrittore ormai famoso, se ne andasse a vivere in mezzo ai boschi. Non era l'unica cosa che non capivano di Mario.
Alcuni di questi racconti li conosco, altri li ascolto per la prima volta dalla voce di Anna. E accanto all'uomo che immaginavo ne prende forma un altro: un uomo esuberante, che amava raccontare storie, litigava con i figli per la politica, invitava troppa gente a casa, perdeva le cose. “Noi siamo andati d'accordo perché io ero negativa e lui positivo. Lui entusiasta di tutto e io pessimista”. A un certo punto avrebbe potuto andarsene via. Una parte del paese gli rimproverava non solo la fama, ma l'ambientalismo negli anni del cemento, delle seconde case e delle piste da sci, le idee politiche in questo Veneto democristiano, la voce sempre fuori dal coro. Avrebbe potuto andare a Milano o a Torino, in Einaudi c'era posto per lui e quelli non erano anni di ritorno alla montagna, gli scrittori abitavano in città. Invece rimase sempre qui. Girava in bici d'estate e con gli sci d'inverno: “La patente non l'ha mai presa. Abbiamo fatto gli esami di guida insieme ma sono stata promossa prima io, allora lui ha detto che in casa bastava una patente sola. Lo accompagnavo dove doveva andare”. Qualche volta molto lontano, perché i libri di Rigoni Stern sono tradotti in tutto il mondo. In Polonia, in Svezia, in Francia, in Olanda, in Russia. La Russia che di Mario Ivanovic era la patria elettiva. Anna osserva le betulle nei quadri. “La Russia ti lascia una nostalgia incredibile”, dice, e mi sembra di sentire parole ripetute tante volte, in questa casa, da un'altra voce.
Prima di andare via mi fa un regalo: mi guida per le scale che vanno di sopra, tra gli scaffali di libri e la bacheca dei fucili, in una stanza che da nove anni non è stata più toccata, ed è diventata un piccolo museo. Lo studio di Mario dev'essere solo un po' più ordinato di quando ci lavorava lui. Libri su ogni parete, il tavolo con la Lettera 22, il cappello da alpino, poche fotografie. Raccolte di mappe di guerra e due biglietti di Primo Levi che spuntano da un libro: nel primo, degli anni Cinquanta, c'è scritto “Caro Rigoni”, nel secondo degli anni Sessanta “Caro Mario”. Io però, più che dalle carte, mi sento attratto dalla finestrella che sta dietro al tavolo, e dà sul bosco. Anche la mia in montagna dà su un bosco. L'inverno per Mario era la stagione dei ricordi, lo riportava a inverni lontani: guardo fuori e ripenso a quest'uomo e ai suoi anni, alla sua eredità che sento il bisogno e il dovere di mantenere viva. Sul bosco nevica rado. I faggi spogli tra gli abeti scuri sembrano sbuffi di fumo. Penso che dopo uscirò nella neve e andrò su per un sentiero a fare un giro.
(foto di Giuseppe Mendicino: grazie per avermi accompagnato qui)
venerdì 3 marzo 2017
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Bel pezzo.
RispondiEliminaCaro Paolo, non abito proprio in zona, ma cercherò di esserci alla Biblioteca di Bollate. Una serata a base di memoria, letteratura, scrittura, Rigoni Stern e montagna è imperdibile.
A presto.
Grazie per stasera.
RispondiEliminaGrazie.
Non sapevo che Rigoni non avesse la patente. Grazie per questo racconto, è molto bello leggere le parole della moglie Anna. Chissà quanti inediti conserva con se.
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