Jack London ha cominciato a cinque anni, portando da bere al padre che lavorava nei campi. Mauro Corona a nove, nella cucina del vecchio che abitava dietro casa sua. Un secchio di birra tiepida e una scodella di Raboso - vinaccio duro e denso, che lasciava le labbra viola, come la crosta sul fondo della tazza mai lavata. Da quella prima bevuta e passando per le sbronze giovanili, scendendo e salendo di gradazione, attraverso le risse, gli incidenti, le avventure sessuali, le follie della grappa e del whisky, gli amici morti, le mille mattine dopo, fino al civile, radicato alcolismo della maturità, questi libri sono, né più né meno, le autobiografie di due ubriaconi. Attraversano le stesse paure e le stesse crisi depressive, subiscono il corteggiamento della Signora e scovano sistemi simili per starne lontani: andarsene via da soli, in alta montagna o in alto mare, per giorni e notti. Cercare di fare la pace con quella cosa. Tuffare i piedi nell’acqua di un torrente, o il corpo nell’oceano, come se ci fosse un demone da annegare, una combustione interna da spegnere nell’acqua ghiacciata. L’alcol brucia. Brucia anche il cervello, tra le altre cose. Non risparmia nemmeno i cervelli meravigliosi, che non sopportando tanta meraviglia ne sono irresistibilmente attratti.
Come mi guardi, vecchio, con gli occhi lucidi e le labbra screpolate, la tua febbre da spirito guerriero ubriaco. John Barleycorn (chicco d’orzo) in America è il soprannome dell’alcol - o almeno lo era all’inizio del Novecento. Noi forse lo potremmo chiamare acino d’uva. I miei scrittori preferiti, in una rimpatriata dall’aldilà, prosciugherebbero nel giro di una notte la cantina del Jack Daniel’s, quel posto in Tennessee con i vecchi che tirano i tappi di sughero: Jack London, William Faulkner, Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Tennessee Williams, John Steinbeck, Dorothy Parker, Carson McCullers, Truman Capote, John O’Hara, Richard Yates, Jack Kerouac, John Cheever, Charles Bukowski, Raymond Carver. Tutti ubriaconi. L’elenco completo compare in un libro di Tom Dardis mai uscito in Italia, The Thirsty Muse (La Musa Assetata). Per qualche motivo, con poche eccezioni, ne stanno fuori le donne e gli scrittori ebrei. Immagino abbia a che fare con l’istinto di conservazione. Che cos’altro posso dire? Lascio l’ultima parola a Jack London nella traduzione di Luciano Bianciardi, un altro che ne ha vuotate parecchie di bottiglie, e le ha pagate fino all’ultima goccia.
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Sono amico. Ero amico. Non sono più amico. Non lo sono mai stato. E mai sono meno amico che quando l’ho vicino e più sembro amico suo. È il re dei bugiardi. È il più onesto degli uomini sinceri. È l’augusto compagno con cui si cammina a braccetto degli dei. È in combutta con la Signora Senza Naso. La sua via porta alla verità nuda, e alla morte. Ti dà vista chiara e sogni torbidi. È nemico della vita, e maestro di saggezza oltre la visione della vita. È un assassino con la mano rossa, e massacra la gioventù.
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Jack London, John Barleycorn
(traduzione di Luciano Bianciardi, UTET Libreria)