La vista da Castle Rock è il panorama che il piccolo Andrew contempla dalle rovine del castello di Edimburgo, all’inizio del XIX secolo. Il padre, ubriaco e in vena di scherzi, gli indica una costa lontana, sbiadita dalla foschia, dall’altra parte del mare.
“Ecco fatto, figliolo, adesso hai visto l’America. Se Dio vuole, un bel giorno la vedrai più da vicino e di persona”. Il bambino crede alla bugia, senza sapere che si rivelerà profetica: pochi anni dopo prende con sé la famiglia, abbandona la povera contea di Ettrick e si imbarca verso il nuovo mondo. Da scozzese ritroverà il suo paesaggio naturale a nord dei Grandi Laghi, nel giovane e inesplorato territorio canadese. La sua storia è quella di una fondazione, una delle tante memorie famigliari che Alice Munro ha raccolto in questo libro.
Nella forma, La vista da Castle Rock è una raccolta di racconti divisa in due capitoli. Il primo riguarda gli antenati della scrittrice, i Laidlaw: dal capostipite William, una celebrità locale intorno al 1600, passando per James il letterato, Andrew che attraversò l’Atlantico, Robert il pioniere che fondò il paese di Morris, e poi giù fino a Bob, il padre della scrittrice, allevatore di volpi e visoni che perse tutto con la Grande Depressione. Alice Munro racconta di aver speso molto tempo tra archivi di famiglia e biblioteche, viaggi in Scozia e cimiteri quasi mai segnati sulle mappe. Cercava una pista, ma la povera gente non lascia grandi tracce di sé nella storia: a volte solo due date, un atto matrimoniale o un contratto di compravendita, un’iscrizione su una pietra tombale. Il primo racconto comincia proprio con uno di questi epitaffi, sembra rubato all’Antologia di Spoon River: “Qui giace William Laidlaw, il celebre Will O’Phaup, impareggiabile finché visse per le sue burle e le imprese di forza e agilità”. Davanti alla lapide, e alla vita evocata da queste poche parole, finisce il lavoro della biografa e comincia quello della narratrice: una sacerdotessa capace di resuscitare i morti con il potere dell’immaginazione.
Nella seconda parte del libro le storie diventano autobiografiche. Per i lettori di Alice Munro sono racconti di una voce intimamente nota: parlano della giovinezza trascorsa nelle campagne dell’Ontario, del primo matrimonio e della fuga a Vancouver, della nascita dei figli, del divorzio, del ritorno a casa. Nell’ultimo racconto, ambientato ai giorni nostri, la scrittrice attraversa con il secondo marito i luoghi della sua infanzia. In ospedale ha appena scoperto di avere un nodulo al seno. Il marito è un geografo, e negli anni le ha trasmesso la sua passione: e così, mentre il pensiero della malattia riempie di tensione il viaggio di ritorno, lei trova una forma di conforto nel contemplare il paesaggio dal finestrino - il lavoro degli antichi ghiacciai, dei fiumi impetuosi e ormai scomparsi, del bosco che riconquista i pascoli e i campi incolti.
Leggere i segni - nel paesaggio, nei volti, nei gesti delle persone - è sempre stato il grande talento di Alice Munro. In nove raccolte di racconti ci ha insegnato come la scrittura abbia il potere di svelare i segreti, scoprendo gli abissi nascosti dietro le apparenze. Rivolgere quello stesso sguardo allo specchio dà luogo a un libro strano, né saggio né narrativa, piuttosto un autoritratto in frammenti, allo stesso tempo delicato e brutale, per forza di cose imperfetto. Scrive l’autrice nell’introduzione: “Si potrebbe dire che racconti del genere prestano maggiore attenzione alla verità della vita rispetto alla narrativa consueta. Ma non quanto basta per prenderli alla lettera. E la parte che in fondo potrebbe essere definita storia di famiglia si è aperta all’invenzione, pur conservando i contorni della narrazione autentica. Le due correnti si sono avvicinate al punto da sembrarmi destinate a scorrere insieme, come succede nelle pagine di questo libro”.
In molte interviste Alice Munro ha chiarito il suo pensiero sul rapporto tra autobiografia e invenzione. Tutti noi, sostiene, riscriviamo continuamente il romanzo della nostra vita: gli eventi passati continuano a esistere nel tempo in forma di ricordi, e presto perdono i legami con la realtà. Diventano storie filtrate dalla prospettiva, dal bisogno di guardarsi indietro e trovare cause, significati, insegnamenti. La memoria è in fondo una distorsione della verità oggettiva, ma anche un atto ordinatore necessario: è il modo in cui raccontiamo il passato a noi stessi per salvarci la vita. Ecco perché La vista da Castle Rock è un libro tenebroso e inquietante. Non solo perché si muove tra cimiteri abbandonati, austere chiese luterane, cronache di antiche carestie. Perché ha a che fare con l’imminenza della morte e con la religione della scrittura.
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Ora tutti questi nomi che ho registrato si uniscono ai vivi nella mia mente, e alle cucine perdute, al lustro bordo di nichel delle vaste e maestose stufe nere, agli scolapiatti di legno fradicio che non asciugavano mai, alla luce gialla della lanterna a olio. Il bricco del latte in veranda, le mele in cantina, i tubi della stufa che uscivano dai buchi nel soffitto, la stalla intiepidita d'inverno dai corpi e dai fiati delle mucche - quelle mucche che ancora incitavamo con gli stessi richiami comuni al tempo di Troia. E in una di queste case - non ricordo di chi - un incantevole fermaporta, una grossa conchiglia di madreperla che riconoscevo come messaggera di luoghi vicini e lontani, perché potevo portarla all’orecchio, quando in giro non c’era nessuno a impedirmelo, e sentire il battito formidabile del mio stesso cuore, e del mare.
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Alice Munro, La vista da Castle Rock
(Traduzione di Susanna Basso, Einaudi 2007)