Kurt, un ragazzino di tredici anni, accompagna a casa gli ospiti ubriachi quando le feste di sua madre finiscono. Il padre faceva il medico in Vietnam ed è morto suicida, dilaniato dalla spaccatura tra il suo mondo - la ricca borghesia americana, le estati a Long Island, i tradimenti e i divorzi e i secondi matrimoni - e il mondo che ha visto in Indocina, i corpi che non ha potuto curare. La madre, per reazione al suo ruolo di vedova, è diventata la regina della costa: dà una festa alla settimana e ogni volta beve troppo, ride a voce troppo alta, balla fino a troppo tardi con i mariti di qualche altra donna. Al piano di sopra Kurt cerca di dormire. Una notte, come al solito, viene chiamato da sua madre: c’è la signora Gurney che non si sente bene, bisogna accompagnarla a casa. E così Kurt si alza, prende sottobraccio la donna ubriaca e parte per la sua missione. Superare un chilometro di spiaggia che si rivelerà infinito, ascoltando le confessioni della donna, guardandola spogliarsi e vomitare, subendo perfino un tentativo di seduzione prima di convincerla ad andare a dormire. Poi torna a casa, ma la festa è ancora in pieno svolgimento e lui non ha voglia di farne parte. Sa che non riuscirà più a dormire. Allora si siede fuori, sull’altalena, e rilegge una lettera che suo padre scrisse a sua madre dal Vietnam. “Per me, se non altro, è un sollievo sapere che c’è qualcuno, lontano lontano, che non può veramente capire, e spero che non possa capire mai”.
È il racconto La Punta, forse il migliore del libro. L’altro mio preferito si intitola Lirismo ed è diviso in due parti. La prima sembra ispirata a un classico del racconto americano, Il grande fiume dai due cuori: è ottobre e Potter ha affittato un bungalow nel bosco per qualche giorno. Vuole stare un po’ tranquillo con la sua ragazza, Jane, per recuperare un rapporto consumato. Ma Jane fa amicizia con i vicini, un gruppo di cacciatori ubriaconi, e così la coppia viene invitata a una grigliata: quella sera Potter beve troppo e il giorno dopo si ritrova a pescare, cercando di smaltire la sbornia e la gelosia, e a pensare alla ragazzina di un’estate lontana. Il fiume, in qualche modo, ha il potere di dargli pace.
Se la prima parte è un omaggio a Hemingway, la seconda gravita dalle parti di Carver. Adesso è inverno, è appena passato il Natale e Potter è solo in casa. Non ci vuole molto a capire che Jane l’ha lasciato. Lui cuoce due patate al forno, le avvolge nell’alluminio ed esce in mezzo alla neve: troverà un barbone con cui dividere le sue patate. Poi tornerà a casa e sarà di nuovo solo come prima. Ci sarà da disfare l'albero di Natale e trascinarlo giù in strada, perché la nettezza urbana se lo porti via.
Ecco una cosa da dire dei racconti di Charles D’Ambrosio: hanno il ritmo e lo stile del grande classico, e una struttura che non obbedisce a nessuna regola. A un certo punto della storia, dove uno scrittore con la testa sulle spalle capisce che è il momento di chiudere il cerchio, lui parte verso un’altra direzione, scrive altre dieci pagine e poi lascia tutto lì, come se si fosse alzato per rispondere al telefono. Invece il racconto è proprio finito. E se questa stranezza alla prima lettura ti disorienta, poi cominci a capire che è una scelta, il modo di D’Ambrosio per catturare la vita: che non chiude, non obbedisce a strutture drammatiche, ma a un certo punto semplicemente gira e se ne va da un’altra parte.
La seconda cosa che mi colpisce al cuore è la disperazione dei suoi personaggi. Io non ho mai capito chi definiva Carver uno scrittore deprimente, perché mi è sempre sembrato un ottimista: la vita dei suoi eroi andava a rotoli ma loro restavano in piedi, versavano ancora un po’ d’acqua nel whisky e aspettavano l’alba - magari pensando al culo di una cameriera, o progettando di andarsene in California. D’Ambrosio è molto più vicino a Richard Ford, un altro maestro della “scuola del nord-ovest”, uno per cui non c’è redenzione. Qui i personaggi muoiono suicidi o consumati da un tumore, sono alcolizzati o fanatici religiosi, impazziscono perché la figlia di due anni annega in un abbeveratoio. Tutti, come D’Ambrosio, hanno ricevuto un’educazione cattolica e pagano il prezzo della sua morale, fatta di peccato, giudizio e punizione.
Charles D’Ambrosio è nato a Seattle e vive a Portland, Oregon. In dodici anni ha scritto due raccolte di racconti. Io l'ho conosciuto all’uscita dell'altro libro, Il museo dei pesci morti, che minimum fax ha tradotto e pubblicato un paio d’anni fa. È un uomo grande e grosso e sembra buono. I ricordi di quella sera sono offuscati dalle grappe bevute insieme: abbiamo parlato a lungo dei maestri, i nostri maestri pescatori o cacciatori. Hemingway, Carver, Ford. Gente che cercava di scrivere buone storie e prendere grossi pesci. Quelli di Charles sono vivi e tirano forte, puntando sempre verso monte, come i salmoni.
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Ora Potter allungò una mano e strizzò la coscia di Jane.
“Tu te lo ricordi il tuo primo bacio?”, le chiese.
“No”, disse lei. “Per la verità no”.
Voleva essere solo una presa in giro, ma la risposta brusca lo sorprese: in quel momento lo stato d’animo di lei era completamente diverso.
Qualche goccia leggera colpì il parabrezza. Si accesero i tergicristalli, che disegnarono due palpebre sul vetro. L’ultima luce del giorno faceva risaltare le sagome delle montagne. La macchina seguiva dolcemente le curve, dondolando, rigirandosi, scendendo. La pioggia cadeva più forte e i tergicristalli scandivano il tempo, mentre Potter tornava a immaginare il suo primo bacio, la notte che scendeva e la paura che l’aveva tormentato per tutta la strada fino a casa. Nei suoi ricordi la paura era sbiadita, o almeno stava sbiadendo. E il pesce? Quello che gli restava era una vibrazione sulla lenza, un tremito nella mano, il ricordo di un incontro con il nulla, quasi, che avveniva e svaniva in un unico istante, e cominciò a riassaporarlo più e più volte, ascoltandolo come se fosse una musica. Dopo un po’ Jane alzò il volume della radio e non poterono più parlare.
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Charles D’Ambrosio, Il suo vero nome
(Traduzione di Martina Testa, minimum fax 2008)