Chissà che cosa si nasconde, nel pugilato, di così profondamente americano. Noi che in fondo non lo capiamo l’abbiamo amato nei libri, come nei libri amiamo l’America che non riusciamo a comprendere: i migliori racconti di pugilato sono di Hemingway, Thom Jones e F.X. Toole. C’è anche un bel libro di Joyce Carol Oates sul giovane Tyson. E poi i romanzi che non ho letto perché sono romanzi, ma se Fat City di Leonard Gardner assomiglia almeno un po’ al film di John Huston allora è un capolavoro. Bisognerebbe scrivere una storia minore della letteratura americana, fondare una sezione a parte nelle biblioteche: e qui l’ultimo arrivato sarebbe Craig Davidson, Ruggine e ossa.
Sollevo da solo due obiezioni. Primo, Craig Davidson è canadese. Secondo, in una raccolta di otto racconti ce ne sono soltanto un paio sul pugilato. Servirebbe troppo tempo per motivare la mia convinzione che la letteratura canadese faccia parte di quella americana, ma ora posso spiegare come mai credo che il posto giusto per questo libro sia lì, nello scaffale dei maschiacci, tra Il pugile a riposo e Million Dollar Baby. Prendete le trame dei racconti: un padre fallito tortura il figlio bambino perché diventi un infallibile tiratore a canestro. Una coppia in crisi alleva cani da combattimento - lui fa l’addestratore e lei l’infermiera - e davanti al proprio campione ormai sbranato riscopre l’amore. Un sessodipendente incontra una sessodipendente durante una riunione dei sessodipendenti anonimi, e indovinate come va a finire. Tutti i racconti funzionano così, con due personaggi che ballano su un quadrato immaginario, si girano intorno e si studiano con qualche jab e poi partono i primi ganci e montanti e ben presto è un corpo a corpo, con sopracciglia spaccate e colpi sotto la cintura e nasi ridotti in poltiglia da testate proibite. Alla fine, ma in fondo non è così importante, uno vince e l’altro perde. Raramente per KO. Più spesso finisce ai punti, o con i due pugili entrambi al tappeto, come succedeva in Rocky II, dove vince l’unico che, aggrappandosi alle corde e sputando sangue, riesce a rimettersi in piedi.
Carver aveva coniato una definizione meravigliosa per i suoi personaggi: gente che ce la mette tutta, ma il più delle volte semplicemente non basta. Ecco chi sono gli eroi di Davidson. Dannati senza possibilità di redenzione. Perché puoi essere duro e potente come Mike Tyson, o intelligente e veloce come Muhammad Ali, ma in quanto pugile conosci già il tuo destino: in un modo o nell’altro finirai male. Sarà questo che affascina tanto l’America? Sarà la tragedia inevitabile, nel pugilato, che lo rende subito letteratura? Sarà il suo essere metafora di un’altra storia, l’unica che è importante raccontare, quella che tutti stiamo cercando di scrivere?
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“Vedrai uomini piangere quando si rompono una mano durante un incontro, messicani cazzutissimi e picchiatori yankee accasciati sullo sgabello all’angolo con gli occhi che zampillano lacrime. Non è tanto il dolore, anche se l’anticipazione del dolore c’è già: la mano che si gonfia nei guantoni da quattrocento grammi e lo sfrigolio elettrico di osso su osso, e magari sei all’ottava ripresa e il tuo destro di vantaggio è spaccato, ma continui a colpire pur di arrivare alla decima e sperare nei punti della giuria. È piuttosto la frustrazione a farli piangere. Nel pugilato tutto sta a lavorare sui punti deboli. Scarsa resistenza? Corsa su strada. Molle nel gioco di gambe? Saltelli sulla corda. Debole a incassare? Mille addominali al giorno. Ma i pugili con le mani rovinate non possono farci nulla, se non ingaggiare un secondo che sappia fasciare gli ossicini. Idem per quelli con l’arcata sopraccigliare sporgente e la pelle che come la tocchi si squarcia. Piangono perché sono punti deboli per cui non c’è un accidente da fare”.
Il pugile in lacrime. Ecco qualcosa con cui fare i conti, d’ora in poi.
Craig Davidson, Ruggine e ossa.
(Traduzione di Paola Brusasco, Einaudi 2008)