L’altra parte di verità è che ho scoperto Melville scrivendo il primo capitolo della guida a New York, e sono stato catturato dalla sua biografia. Lasciate che la riassuma qui. Herman Melvill nacque in Pearl Street a Manhattan, la strada dei pescatori di ostriche, nel 1819. La madre veniva da una dinastia di proprietari terrieri olandesi, il padre da mercanti inglesi, ed entrambi i nonni erano eroi di guerra della rivoluzione. Due famiglie ricche dell’alta società americana. Anche Herman sarebbe stato destinato a un’esistenza tranquilla, se il padre non fosse andato in bancarotta nel 1830, e morto subito dopo. Doveva aver lasciato parecchi debiti o qualche cattivo ricordo, perché a quel punto la vedova cambiò il cognome dei figli da Melvill a Melville, e li portò a vivere in campagna, nelle tenute dei nonni a nord di New York. Ma Herman era cresciuto in città. Aveva visto il porto, e forse assomigliava al padre. Appena finita la scuola, nel 1839, decise di imbarcarsi: e tra un viaggio e l’altro, tra un mercantile e una nave militare, tra una spedizione ai Caraibi e una traversata dell’Atlantico, rimase in mare per cinque anni, e quando alla fine scese ne aveva venticinque e voleva fare lo scrittore. Scrisse due romanzi, Typee e Omoo, di immediato successo e scarso valore letterario, storie d’amore e d'avventura tra marinai e indigene dei Mari del Sud. Si sposò, e con i compensi dei primi libri comprò una fattoria dalle parti di Saratoga, dove ebbe la fortuna o la maledizione di trovare un vicino eccezionale: Nathaniel Hawthorne. Era il 1851. Non sappiamo quanta parte, nella svolta letteraria di Melville, sia dovuta all’influsso di Hawthorne, ma Moby Dick è dedicato a lui: In segno della mia ammirazione per il suo genio. Dicevo fortuna o maledizione, perché il libro vendette in tutto poco più di 500 copie. Il pubblico non apprezzò il passaggio dalle sensuali danzatrici hawaiane al capitano zoppo ossessionato dalla balena bianca, e per la carriera di Melville fu l’inizio della fine. Scrisse ancora qualcosa, soprattutto e poesie e racconti brevi, tra cui il suo capolavoro Bartleby lo scrivano. Della storia di Bartleby sono state date decine di interpretazioni - potrebbe essere un’opera sul conformismo, sull’alienazione, sulla disobbedienza, sulla sovversione - ma letteralmente è la storia di uno che smette di scrivere, e poi smette di fare tutto il resto, e alla fine si lascia morire. Preferirei di no. Anche Melville preferì di no, e morì del tutto sconosciuto nel 1891, dopo che la fattoria era fallita e lui aveva lavorato per vent’anni alla dogana del porto di New York. E io sono qui, 158 anni dopo che è stato scritto, a leggere un romanzo che comincia così:
Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa - non importa quanti esattamente - avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che mi interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e di vedere la parte acquea del mondo. È un modo che ho io di cacciare la malinconia e regolare la circolazione. Ogni volta che mi sorprendo con le labbra atteggiate al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in strada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto. Questo, per me, sta al posto del proiettile e della pistola. Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada: io invece mi metto in mare. Non c'è nulla di sorprendente in questo. Se soltanto lo sapessero, quasi tutti gli uomini nutrono, una volta o l’altra, ciascuno nella sua misura, su per giù gli stessi sentimenti che nutro io verso l’oceano.
Herman Melville, Moby Dick, o la Balena