Sono tortuose le strade che portano a leggere un libro. Mi ricordo bene, verso i sedici anni, la sensazione di vertigine che provavo entrando in biblioteca (allora, senza soldi, prendevo i libri in prestito o li rubavo; adesso al contrario ne compro troppi, più di quelli che riesco a leggere; forse quando sarò vecchio tornerò a fregarmene di accumulare carta, e possiederò solo il libro che sto leggendo). Migliaia di titoli, epoche e luoghi, e un esercito di scrittori morti che mi osservavano dagli scaffali, minacciando di crollarmi addosso come gli scheletri di Indiana Jones. Di certo lì dentro c’era quello che faceva per me, però come facevo a trovarlo? Il mio libro mi stava aspettando in qualche angolo di quel labirinto, e io non sapevo nemmeno da dove cominciare (credo di avere letto tutta Isabel Allende e tutto Paul Auster solo per evitare di vagare in preda al panico nella biblioteca di quartiere). Poi ho scoperto il sistema delle scatole cinesi. I libri sono pieni di indizi per arrivare ad altri libri, se uno è pronto a coglierli e a risalire la corrente. Così, a diciassette anni sono stato folgorato da un romanzo chiave per la mia generazione, Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Devo averlo riletto tre o quattro volte, e poi ho cominciato a notare le tracce che gli scrittori seminano sempre, perché raccontando una storia sentono il bisogno di dire da dove vengono, di fare i nomi dei loro maestri. Anche Brizzi era stato generoso. Nel romanzo, il protagonista leggeva Due di due di Andrea De Carlo: e io sono tornato in biblioteca, ho preso in prestito Due di due, me ne sono innamorato, in qualche mese ho letto l'opera completa di De Carlo (tuttora penso che i suoi primi cinque o sei libri siano da conservare; poi ne sono arrivati un paio che mi hanno molto deluso; gli ultimi non li ho letti). Un altro indizio seminato da Brizzi: sulla prima pagina del suo romanzo c’era una dedica ad Andrea P. e T., che hanno disegnato e scritto. Questa è stata una ricerca più ardua ma alla fine ho decodificato i nomi di Andrea Pazienza e Pier Vittorio Tondelli, e così anch’io ho conosciuto le storie di Pier. E poi sono andato avanti a scoperchiare scatole: di Tondelli non solo ho letto Altri libertini, ma ho esplorato il lavoro che faceva con gli aspiranti scrittori, scoprendo che a tutti consigliava Hubert Selby Junior, Ultima fermata a Brooklyn. L’incontro con Selby mi ha spalancato le porte di un mondo in cui sono tuttora immerso. Appena tre gradi di separazione e da Jack Frusciante - quel tascabile nascosto sotto al banco di liceo tra le gomme appiccicate e le barzellette sporche - ero arrivato alla letteratura americana del dopoguerra. (A proposito di americani, di gradi di separazione e pure di banchi di liceo, vi ricordate che cosa legge Holden Caulfield prima di scappare dal collegio? Secondo me non ve lo ricordate. La mia Africa. A Holden non piace mai niente, meno di tutto quello che è finto e pretende di sembrare vero, e invece La mia Africa lo appassiona. Se ne sta lì da solo a leggere Karen Blixen quando arriva il vecchio Stradlater a pulirsi le unghie e rompere i maroni. Così l’ho letto anch’io, cercando di non pensare troppo a Meryl Streep e Robert Redford, anche se non è stato facile. Aveva ragione Holden, è un gran bel libro. Leggendolo si capisce bene come mai piacesse tanto a Salinger.)
Ora, perché ho raccontato questa storia? Perché c’è un nome che mi perseguita da più di dieci anni, cioè dai tempi in cui lessi Ballo di famiglia di David Leavitt. Nell’introduzione a quel libro, Fernanda Pivano faceva parecchi nomi. Era il testo con cui nel 1987 presentava il minimalismo letterario al pubblico italiano, citando ampiamente un saggio-manifesto di un paio d'anni prima, New Voices and Old Values, in cui lo stesso Leavitt definiva le caratteristiche del nuovo movimento. Dunque la Nanda ne individuava il padre e la madre in Raymond Carver e Grace Paley, e gli esponenti più notevoli (“autori ormai quasi tutti popolari anche in Italia, o che lo diventeranno presto”) in Marian Thurm, Peter Cameron, Meg Wolitzer, Bobbie Ann Mason, Ann Beattie, Amy Hempel, Elizabeth Tallent. Nomi di scrittori americani, acqua per mia gola arsa. Io all’epoca non ne conoscevo neanche uno. La mia biblioteca di quartiere ne era sprovvista, ma non era colpa sua: era l’editoria italiana che li aveva persi per strada. Solo in anni più recenti è cominciato un lavoro di recupero dei maestri dimenticati, e pazienza se scrivevano racconti brevi: e così anche noi abbiamo letto le storie di Eudora Welty e Kathrine Mansfield, e di John Cheever, Donald Barthelme, Mary Robinson, Richard Yates. Ora è la volta di Amy Hempel. Ecco il nome che mi perseguitava. I suoi unici testi tradotti in italiano erano fuori dalla circolazione da quasi vent’anni. In America è considerata una maestra e più di una volta, a New York, ho preso in mano uno dei suoi libri, l’ho sfogliato e alla fine l’ho rimesso nello scaffale. Non era diffidenza né altro. Semplicemente, il suo inglese era troppo difficile per il mio. Per fortuna adesso ci ha pensato Mondadori, pubblicando in un solo libro le quattro raccolte di racconti che Amy ha scritto: Ragioni per vivere (1985), Alle porte del regno animale (1990), Rientrata (1997), Il cane del matrimonio (2005). Io ci vado giù pesante con gli editori, specialmente con quelli industriali, ma questa volta mi inchino di fronte a un’operazione che non porterà nessun ritorno economico: dico grazie a chiunque, in Mondadori, abbia avuto l’idea di pubblicare questo libro. I racconti di Amy Hempel sono difficili. Spesso sono lunghi solo due o tre pagine. Per gli appassionati della questione Carver-Lish, riporto la frase che chiude la raccolta: Con uno speciale ringraziamento a Gordon Lish, editor del mio primo e secondo libro, per la conversazione durata trent’anni. Dunque pare che lo spietato aguzzino abbia fatto anche del bene. Non so se con Amy Hempel abbia usato la sua leggendaria mannaia, ma di certo queste storie sono oscure, ermetiche, ellittiche, lavorate in modo maniacale. In questo senso mi ricordano quelle di Lydia Davis. Parlano di persone normali in situazioni normali, anche se nel mondo di Amy Hempel la normalità delle persone è più vicina all’ossessione, alla nevrosi, alla malattia mentale che a una pacifica, monotona lucidità. Alcuni racconti mi hanno spiazzato, a volte anche disturbato, però senza commuovermi. Altri li ho letti più volte perché mi hanno colpito al cuore: credo che tutti siano da rileggere e meditare, senza fretta di passare al successivo, prestando attenzione alle parole. Se siete persone più pazienti di me, uno al giorno potrebbe andar bene. In fondo Amy Hempel ci ha messo vent’anni per scriverne 48. Copio qui un pezzo del quarantaquattresimo, a me è piaciuto molto, poi fate voi.
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COS’ERANO LE COSE BIANCHE?
Queste stoviglie sono una compagnia di repertorio, recitano una parte in ogni sogno. No, non cominciò così. Disse che le stoviglie recitavano una parte in ogni quadro. L’artista proiettava diapositive delle nature morte che aveva dipinto nell’arco di più di trent’anni. Qualcuno fra il pubblico ristretto e attento chiese: “Quella tazza non era in un quadro di qualche anno fa?”. Sì, infatti, disse l’artista, e anche la caraffa, la terrina e il calice. Chi era la donna nuda appoggiata al tavolo sul quale erano disposte le stoviglie? L’artista non lo disse, e nessuno fra il pubblico ristretto e attento lo chiese.
A me bastava guardare gli oggetti su cui per tanti anni si era concentrata l’attenzione di un uomo di talento. Ero capitata alla conferenza mentre ero diretta altrove, a un appuntamento con uno specialista fissato dalla mia dottoressa. Due giorni prima mi aveva fornito il suo nome e l’indirizzo, e devo ammettere che avevo smesso di ascoltarla, anche se - o proprio perché - era importante. Così, anziché andare nello studio del radiologo, ero entrata nella chiesa sconsacrata dove si teneva la presentazione dell’artista, annunciata fuori con il titolo: “Trovare il mistero nella chiarezza”. Non era forse il contrario di quel che cercava la maggior parte delle persone?
Le stoviglie erano bianche, non smaltate, ed erano dipinte in modo realistico. I vari pezzi proiettavano ombre di lunghezza diversa in ogni dipinto, a seconda del taglio della luce. A volte erano allineati in modo da toccarsi, e a volte rimanevano spazi vuoti tra uno e l’altro. Quegli spazi vuoti erano parte del mistero che l’artista aveva in mente? Voleva che li prendessimo alla lettera, che pensassimo: assenza? Disse che la mente vuole comprendere il significato delle cose, vuole sapere quello che rappresentano. D’accordo, disse l’artista, ecco cosa ho dipinto quel settembre. Sullo schermo apparve un tavolo ben noto - perché da anni figurava nelle sue nature morte - mentre le due stoviglie più alte, la caraffa e il vaso, erano sparite; al loro posto non c’era niente.
Ahhh, fece il pubblico ristretto e attento.
Poi qualcuno chiese all’artista: “Cos’erano le cose bianche?”. Voleva dire le cose bianche negli altri quadri. Che cosa rappresentavano? E l’artista disse che non intendeva rispondere a quella domanda.
Amy Hempel, Ragioni per vivere
(Traduzione di Silvia Pareschi, Mondadori 2009)
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La seconda maestra ritrovata è Ann Beattie, di cui minimum fax pubblica il romanzo d’esordio, “Gelide scene d’inverno”, del 1976. La sua assenza dalle librerie italiane è ancora più inspegabile di quella di Amy Hempel, perché la carriera di Ann Beattie non ha nulla di ermetico e oscuro: in 33 anni ha pubblicato sette romanzi e otto raccolte di racconti. Per i racconti, in particolare, è stata più volte accostata a gente come Cheever e Salinger. Era una buona amica di Carver: io l’ho sentita descrivere il loro rapporto nell’unico documentario biografico che esista su di lui, “To write and keep kind”, del 1992 (un brutto film, ma un documento prezioso). Così incrocio le dita e spero che i miei amici di minimum fax abbiano in cantiere anche i suoi racconti, in particolare il best of che in America è uscito una decina d’anni fa con il titolo di “Park City”.
A proposito di titoli: quello originale del romanzo, “Chilly Scenes of Winter”, anticipa il film che pochi anni dopo avrebbe segnato un’epoca: “The Big Chill” (Il grande freddo). Anche in questa storia i personaggi fanno i conti con la fine delle illusioni. Ann Beattie è del ’47, perciò ha vissuto in piena adolescenza la febbre degli anni Sessanta: e infatti la colonna sonora del libro corre parallela a quella del film. Ma nel 1976 Brian, Janis, Jimi e Jim sono già morti da un pezzo, e il protagonista Charles si trova a fare i conti con un padre che non c’è più, una madre che è uscita di testa e ogni tanto prova ad ammazzarsi, un patrigno che potrebbe essere eletto come Americano Medio dell’Anno e un grande amore, Laura, donna sposata che prima va a vivere con Charles, poi torna dal marito (un ex giocatore di football soprannominato “il Bue”), poi lascia marito e figlia e prova a stare da sola, in cerca di se stessa. La storia è più o meno tutta qui. Ma più che la trama, credo che l’importanza di questo libro sia nel ritratto di una generazione: quella dei trentenni colti e benestanti che da ragazzi vissero la rivoluzione culturale e da adulti furono travolti dal riflusso, e nel frattempo avevano perso ogni riferimento riguardo alla famiglia e alla coppia. Janis Joplin canta molto spesso in Gelide scene d’inverno, ma è un passato che sembra già remoto. Il futuro prossimo, annunciato come una cappa di umidità all’orizzonte, è Reagan, lo yuppismo, il vuoto pneumatico degli anni Ottanta. C’è una domanda ricorrente che Laura fa a Charles, il quale è un innamorato all’antica, del tipo ossessivo-persecutorio: perché ti piaccio così tanto? Che cosa trovi di così irresistibile in me? Che cosa ho in fondo di speciale? Forse, Laura, è solo che sei diversa da tutto quello che c’è fuori. A me sembra che succeda così. Forse amare Laura è un modo per conservare quello che è stato, e che è perduto per sempre.
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Per un po’, quando le cose fra loro andavano a gonfie vele, parlando con Laura a Charles era capitato di dimenticarsi che non avevano passato insieme tutta la vita. Le nominava i suoi compagni delle medie e dava per scontato che li conoscesse anche lei, le raccontava di come aveva mentito per non entrare nell’esercito e si dimenticava che non le aveva mai detto una parola sull’esercito. Laura non gli raccontava mai molto del suo passato. La madre era morta quando lei andava alle superiori. Charles non ha idea di che fine abbia fatto il padre, se sia vivo o morto. E non si ricorda dov’è andata alle superiori. In Virginia, ma quale parte della Virginia? Durante le superiori ha lavorato come cameriera. Ma gli ha mai raccontato com’era, fare la cameriera? Gli ha mai raccontato un aneddoto buffo? Gli pare di no. Laura ha un fratello che gestisce un rifugio per cacciatori. Non lo vede da anni. Una volta per Natale le ha mandato una testa di cervo. E poi che altro, che altro sa di Laura?
I capelli di Laura sono sempre elettrici. Lei cosparge la spazzola di lacca spray, sperando di risolvere così il problema. Il suo Beatle preferito è George Harrison. Non ha mai dovuto portare l’apparecchio per i denti. Le piacciono i saponi costosi, dal profumo delicato. Ha i capelli lunghi e mossi. Quando si è comprata la prima macchina era esaltatissima, anche se era una macchina vecchia. All’università prendeva voti discreti. La prima volta che ha bevuto è stata a diciott’anni, un rum collins. Adesso beve scotch. Le fanno pena le giraffe. Non le importa cosa ci mettono sulla pizza, purché non siano alici. Però le piace la Caesar Salad, ed è rimasta sorpresa quando ha scoperto che dentro c’erano anche le alici tritate. Le piace Jules e Jim. Ha pensato di fare la regista. Una volta ha visto Otto Preminger per strada. Certo che è sicura che era lui. Cuoceva striscioline di carne, mandorle e verdure nel wok, coltivava violette che avevano gli stessi colori dei suoi saponi a tinte pastello, si faceva la doccia con l’acqua troppo calda per lui. Una volta gli ha chiesto perché si festeggiava il Primo Maggio. Non si ricorda bene i nomi e le date e non si sente troppo in colpa per questo. Ha i piedi lunghi. I piedi lunghi e magri. I macellai sono gentili con lei, i benzinai le puliscono il parabrezza.
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Ann Beattie, Gelide scene d’inverno
(Traduzione di Martina Testa, minimum fax 2009)