Prima però devo dire un’altra cosa. Quand’ero piccolo e imparavo ad andare in montagna, avevo una guida alpina. Una guida, per un bambino, è qualcosa di più di un maestro di scuola. Ti insegna a guardare e a muoverti, a sopportare la fatica, a mantenere la calma nelle situazioni difficili. Quando cominci ad arrampicare su roccia, e soffri di vertigini, ti tremano le gambe, hai paura di morire, la guida è la persona che sta dall’altra parte della corda, e ti tiene quando cadi. Sei letteralmente nelle sue mani. Io poi, anche se fa un po’ ridere, soffro da sempre di mal di montagna, e appena mi avvicino ai 4000 metri comincio a vomitare. Dunque ecco chi era la mia guida: l’uomo adulto con cui mi trovavo, a dieci o dodici anni, in mezzo ai ghiacciai, a volte sotto la neve e il vento, piangendo e vomitando. Era la persona che mi parlava con dolcezza e mi convinceva ad andare avanti. Ho anche provato a scrivere un racconto su di lui, in cui l’ho chiamato Tito. Ma come succedeva in quella storia, c’era un problema insormontabile nel nostro rapporto: io non ero suo figlio, lui non era mio padre. Quando alla fine di una scalata ce ne andavamo ognuno per conto suo, io per qualche giorno provavo a parlare come lui (poco), camminare come lui (con leggerezza, come senza peso), avere il suo stesso atteggiamento di fronte al pericolo, tipo un temporale in parete (fischiettare). Lui invece, appena io non c’ero più, ripartiva con qualcun altro. Dunque a pensarci bene avevo un problema molto simile a quello degli ubriachi che si innamorano delle bariste. Di qua c’è amore e di là mestiere, al massimo un po’ di cortesia. Ho fatto anch’io le mie scenate al banco, alle due di notte, con il cuore spezzato e il bicchiere vuoto; invece, non sono più andato in montagna con una guida alpina.
Adesso c’è Rambo, che pascola le mucche nei prati sopra casa mia. Ha un’età tra i quaranta e i cinquanta, è difficile capirlo per via delle mani enormi, il fisico da peso massimo, i maglioni laceri, la barba rossa e la pelle bruciata. Il suo vero nome è Gabriele, ma pare che da giovane si cacciasse sempre nei guai: gli mancano i due incisivi superiori, e zoppica sulla gamba sinistra per essere finito sotto un trattore. Nonostante i denti sorride spesso. Da giugno a settembre vive in una piccola stanza rivestita di legno, tre metri per tre, una brandina, una stufa, un tavolo. Alle pareti campanacci di mucche e i collari di cuoio lavorato, un telo di plastica sopra la testa perché il tetto è crollato qualche inverno fa. Intorno un villaggio fantasma, sei o sette baite abbandonate e cadenti, le ortiche che infestano i vecchi letamai. A giugno quassù c’eravamo soltanto io e lui: io ogni mattina passavo accanto al suo pascolo e gli facevo un cenno con la mano; dopo una settimana, Rambo ha deciso di ricambiare il saluto. Ma la nostra amicizia è cominciata tutta in una volta. Una sera ero in casa a fare le tagliatelle, ho sentito un suono di campanacci, mi sono affacciato e ho fatto appena in tempo a vedere due vitelli che scappavano in giù, verso la strada. Le bestemmie di Rambo risuonavano per la valle. Per colpa della gamba zoppa non era riuscito a inseguirli, e io ho pensato: ora! Mi sono slacciato il grembiule, ho preso il mio bastone, ho spento il fornello sotto l’acqua della pasta e sono partito, tutto infarinato com’ero. Il ritorno coi fuggiaschi è stato il mio momento di gloria.
L’altro mio grande amico è Remigio, che ha costruito questa casa. Anche suo padre costruiva case. Ma a quanto pare era un uomo scontroso, avvelenato da una buona dose di rancore, e non ha mai nascosto a suo figlio che lo considerava un buono a nulla. Così, quando il padre è morto, Remigio ha preso la vecchia baita di famiglia, l’ha smontata un pezzo alla volta e l’ha rimontata come nuova. Siccome era una questione privata tra loro due, ha dovuto fare tutto da solo. Ha abbassato il pavimento della stalla di un metro e mezzo, scavando a mano con pala e piccone, per trasformarla nella camera da letto dove adesso dormo. Per il tetto ha tirato su a braccia cinque tronchi di larice lunghi sei metri. Infine ha smontato il tavolato interno, incrostato di letame e nero della fuliggine di due o tre secoli, ha pulito le assi una per una e le ha portate da un falegname, e adesso sono l’armadio, il cassettone, le panche, il tavolo dove scrivo. Il lavoro gli ha portato via due lunghe estati, e non so se sia stato sufficiente a chiudere i conti in sospeso, ma ha prodotto una casa di cui mi sono innamorato. Perché anche se non conosci la sua storia senti che in ogni pezzo c’è un pensiero, e il bisogno di fare ogni cosa nel modo più giusto possibile. Così adesso lo vedi, vecchio, se sono un buono a nulla.
Dunque ormai dovrebbe essersi capito: questa è una storia di maschi. Di maestri invecchiati male e padri che tornano dall’aldilà. Quello di Rambo era un pastore come lui. La sera dei vitelli ho scoperto che una delle baite abbandonate gli fa da cantina, e molto più tardi, quella notte, sono tornato verso casa barcollando al buio. Anche a lui il villaggio mette malinconia: si ricorda di quando ci veniva con il padre e i fratelli, e in tre famiglie passavano qui la stagione dell’alpeggio, da metà giugno a fine settembre. Da San Bernardo a San Michele, si diceva una volta. Ora è rimasto solo lui. Tra le foto appese al muro ce n’è una con moglie e figli, ma ho paura che sia un tasto dolente e forse è meglio chiedere della mucca pezzata, che Rambo abbraccia per il collo lì di fianco: quella è Morgana, la sua preferita, andata al macello ormai molti anni fa. E poi c’è Lupo che è il suo compagno inseparabile. L’uomo e il cane trascorrono l’anno in diverse case, salendo di quota con l’avanzare della stagione: in aprile a 1000 metri, in giugno a 1800, in agosto a 2400. D’inverno Rambo lavora in una stalla in pianura oppure agli impianti. È l’uomo alla stazione d’arrivo della seggiovia. E ci sono intere settimane di nuvole basse in cui non passa uno sciatore per giorni, e lui sta lassù nel gabbiotto a guardare la seggiovia che gira e gira, a vuoto fino a quando fa buio.
Anche Remigio d’inverno lavora da quelle parti, come gattista. Da quello che ho capito, si tratta di una specie di battaglione di arditi. Perché il gatto delle nevi non serve solo a spianare le piste: è anche l’unico mezzo in grado di andare su e giù d’inverno con qualsiasi situazione atmosferica, perciò viene usato per i soccorsi. Ma Remigio non è il tipo d’uomo che entra in un bar di montagna alle dieci di sera, dopo avere effettuato un recupero sotto la tormenta, e offre da bere a tutti. Anzi è riflessivo, introverso. Io e lui abbiamo cominciato a fare amicizia quando ha scoperto che scrivevo, gli ho dato qualcosa da leggere e poi ne abbiamo parlato a lungo, falciando i prati qui intorno, caricando balle di fieno sul trattore che mi ha lasciato guidare e impilandole nel fienile di sua madre. Poi in casa sua ho visto una macchina da scrivere e mi è sembrato di capirci qualcosa di più. Nel rullo c’era un foglio, e sul foglio una frase vecchia di qualche anno: chissà se riuscirò mai a scrivere come prima. Mi si è stampata a fuoco nella memoria. Quando gliene ho chiesto il senso, mi ha spiegato che risale alla morte di suo padre. Lì accanto ci sono due lunghi scaffali di libri sotto le teste di stambecchi e camosci, le piume di aquila reale, l’ermellino e la volpe a cui quell’uomo, bracconiere a tempo perso, sparava per placare la rabbia. Qui dovrei dire che anche Remigio aveva una moglie, però adesso vive solo. Questa, come dicevo, è una storia di maschi.
Gli spiriti abitano la mia casa. Di sera esco spesso sul prato, perché col buio il bosco cambia odore, e sto lì per un po’ a respirare a pieni polmoni. Raggiungo un dosso da cui si apre la vista sulla valle. Se guardo in su vedo il filo di fumo che dalla stufa di Rambo esce attraverso il telone; in giù la finestra di Remigio è illuminata. Uno ascolta la radio aspettando di prendere sonno, l’altro sta leggendo un libro. E io mi sento finalmente al mio posto: come potrei vivere altrove?