mercoledì 25 agosto 2010

MASCHI (uno)

Tanto per dimostrare a me stesso che non è vero, non è vero che sono incapace di avere rapporti affettivi con altri esseri umani, oggi parlerò dei due amici che mi sono fatto qui, Rambo e Remigio.

Prima però devo dire un’altra cosa. Quand’ero piccolo e imparavo ad andare in montagna, avevo una guida alpina. Una guida, per un bambino, è qualcosa di più di un maestro di scuola. Ti insegna a guardare e a muoverti, a sopportare la fatica, a mantenere la calma nelle situazioni difficili. Quando cominci ad arrampicare su roccia, e soffri di vertigini, ti tremano le gambe, hai paura di morire, la guida è la persona che sta dall’altra parte della corda, e ti tiene quando cadi. Sei letteralmente nelle sue mani. Io poi, anche se fa un po’ ridere, soffro da sempre di mal di montagna, e appena mi avvicino ai 4000 metri comincio a vomitare. Dunque ecco chi era la mia guida: l’uomo adulto con cui mi trovavo, a dieci o dodici anni, in mezzo ai ghiacciai, a volte sotto la neve e il vento, piangendo e vomitando. Era la persona che mi parlava con dolcezza e mi convinceva ad andare avanti. Ho anche provato a scrivere un racconto su di lui, in cui l’ho chiamato Tito. Ma come succedeva in quella storia, c’era un problema insormontabile nel nostro rapporto: io non ero suo figlio, lui non era mio padre. Quando alla fine di una scalata ce ne andavamo ognuno per conto suo, io per qualche giorno provavo a parlare come lui (poco), camminare come lui (con leggerezza, come senza peso), avere il suo stesso atteggiamento di fronte al pericolo, tipo un temporale in parete (fischiettare). Lui invece, appena io non c’ero più, ripartiva con qualcun altro. Dunque a pensarci bene avevo un problema molto simile a quello degli ubriachi che si innamorano delle bariste. Di qua c’è amore e di là mestiere, al massimo un po’ di cortesia. Ho fatto anch’io le mie scenate al banco, alle due di notte, con il cuore spezzato e il bicchiere vuoto; invece, non sono più andato in montagna con una guida alpina.

Adesso c’è Rambo, che pascola le mucche nei prati sopra casa mia. Ha un’età tra i quaranta e i cinquanta, è difficile capirlo per via delle mani enormi, il fisico da peso massimo, i maglioni laceri, la barba rossa e la pelle bruciata. Il suo vero nome è Gabriele, ma pare che da giovane si cacciasse sempre nei guai: gli mancano i due incisivi superiori, e zoppica sulla gamba sinistra per essere finito sotto un trattore. Nonostante i denti sorride spesso. Da giugno a settembre vive in una piccola stanza rivestita di legno, tre metri per tre, una brandina, una stufa, un tavolo. Alle pareti campanacci di mucche e i collari di cuoio lavorato, un telo di plastica sopra la testa perché il tetto è crollato qualche inverno fa. Intorno un villaggio fantasma, sei o sette baite abbandonate e cadenti, le ortiche che infestano i vecchi letamai. A giugno quassù c’eravamo soltanto io e lui: io ogni mattina passavo accanto al suo pascolo e gli facevo un cenno con la mano; dopo una settimana, Rambo ha deciso di ricambiare il saluto. Ma la nostra amicizia è cominciata tutta in una volta. Una sera ero in casa a fare le tagliatelle, ho sentito un suono di campanacci, mi sono affacciato e ho fatto appena in tempo a vedere due vitelli che scappavano in giù, verso la strada. Le bestemmie di Rambo risuonavano per la valle. Per colpa della gamba zoppa non era riuscito a inseguirli, e io ho pensato: ora! Mi sono slacciato il grembiule, ho preso il mio bastone, ho spento il fornello sotto l’acqua della pasta e sono partito, tutto infarinato com’ero. Il ritorno coi fuggiaschi è stato il mio momento di gloria.

L’altro mio grande amico è Remigio, che ha costruito questa casa. Anche suo padre costruiva case. Ma a quanto pare era un uomo scontroso, avvelenato da una buona dose di rancore, e non ha mai nascosto a suo figlio che lo considerava un buono a nulla. Così, quando il padre è morto, Remigio ha preso la vecchia baita di famiglia, l’ha smontata un pezzo alla volta e l’ha rimontata come nuova. Siccome era una questione privata tra loro due, ha dovuto fare tutto da solo. Ha abbassato il pavimento della stalla di un metro e mezzo, scavando a mano con pala e piccone, per trasformarla nella camera da letto dove adesso dormo. Per il tetto ha tirato su a braccia cinque tronchi di larice lunghi sei metri. Infine ha smontato il tavolato interno, incrostato di letame e nero della fuliggine di due o tre secoli, ha pulito le assi una per una e le ha portate da un falegname, e adesso sono l’armadio, il cassettone, le panche, il tavolo dove scrivo. Il lavoro gli ha portato via due lunghe estati, e non so se sia stato sufficiente a chiudere i conti in sospeso, ma ha prodotto una casa di cui mi sono innamorato. Perché anche se non conosci la sua storia senti che in ogni pezzo c’è un pensiero, e il bisogno di fare ogni cosa nel modo più giusto possibile. Così adesso lo vedi, vecchio, se sono un buono a nulla.

Dunque ormai dovrebbe essersi capito: questa è una storia di maschi. Di maestri invecchiati male e padri che tornano dall’aldilà. Quello di Rambo era un pastore come lui. La sera dei vitelli ho scoperto che una delle baite abbandonate gli fa da cantina, e molto più tardi, quella notte, sono tornato verso casa barcollando al buio. Anche a lui il villaggio mette malinconia: si ricorda di quando ci veniva con il padre e i fratelli, e in tre famiglie passavano qui la stagione dell’alpeggio, da metà giugno a fine settembre. Da San Bernardo a San Michele, si diceva una volta. Ora è rimasto solo lui. Tra le foto appese al muro ce n’è una con moglie e figli, ma ho paura che sia un tasto dolente e forse è meglio chiedere della mucca pezzata, che Rambo abbraccia per il collo lì di fianco: quella è Morgana, la sua preferita, andata al macello ormai molti anni fa. E poi c’è Lupo che è il suo compagno inseparabile. L’uomo e il cane trascorrono l’anno in diverse case, salendo di quota con l’avanzare della stagione: in aprile a 1000 metri, in giugno a 1800, in agosto a 2400. D’inverno Rambo lavora in una stalla in pianura oppure agli impianti. È l’uomo alla stazione d’arrivo della seggiovia. E ci sono intere settimane di nuvole basse in cui non passa uno sciatore per giorni, e lui sta lassù nel gabbiotto a guardare la seggiovia che gira e gira, a vuoto fino a quando fa buio.

Anche Remigio d’inverno lavora da quelle parti, come gattista. Da quello che ho capito, si tratta di una specie di battaglione di arditi. Perché il gatto delle nevi non serve solo a spianare le piste: è anche l’unico mezzo in grado di andare su e giù d’inverno con qualsiasi situazione atmosferica, perciò viene usato per i soccorsi. Ma Remigio non è il tipo d’uomo che entra in un bar di montagna alle dieci di sera, dopo avere effettuato un recupero sotto la tormenta, e offre da bere a tutti. Anzi è riflessivo, introverso. Io e lui abbiamo cominciato a fare amicizia quando ha scoperto che scrivevo, gli ho dato qualcosa da leggere e poi ne abbiamo parlato a lungo, falciando i prati qui intorno, caricando balle di fieno sul trattore che mi ha lasciato guidare e impilandole nel fienile di sua madre. Poi in casa sua ho visto una macchina da scrivere e mi è sembrato di capirci qualcosa di più. Nel rullo c’era un foglio, e sul foglio una frase vecchia di qualche anno: chissà se riuscirò mai a scrivere come prima. Mi si è stampata a fuoco nella memoria. Quando gliene ho chiesto il senso, mi ha spiegato che risale alla morte di suo padre. Lì accanto ci sono due lunghi scaffali di libri sotto le teste di stambecchi e camosci, le piume di aquila reale, l’ermellino e la volpe a cui quell’uomo, bracconiere a tempo perso, sparava per placare la rabbia. Qui dovrei dire che anche Remigio aveva una moglie, però adesso vive solo. Questa, come dicevo, è una storia di maschi.

Gli spiriti abitano la mia casa. Di sera esco spesso sul prato, perché col buio il bosco cambia odore, e sto lì per un po’ a respirare a pieni polmoni. Raggiungo un dosso da cui si apre la vista sulla valle. Se guardo in su vedo il filo di fumo che dalla stufa di Rambo esce attraverso il telone; in giù la finestra di Remigio è illuminata. Uno ascolta la radio aspettando di prendere sonno, l’altro sta leggendo un libro. E io mi sento finalmente al mio posto: come potrei vivere altrove?

12 commenti:

  1. Ciao Paolo,
    sono Lorenzo: leggo spesso i tuoi post, ogni tanto ti scrivo. Oggi, e ti chiedo scusa in anticipo per questa invasione nella sfera privata, alla fine della lettura mi è sorta un po' di curiosità. Il tuo periodo in montagna ha una data di scadenza oppure no? La casa dove vivi è di tua proprietà? Hai descritto queste tue nuove amicizie facendomi vivere le tue emozioni, come spesso sai fare. Quello che non dici, e con cui devo fare i conti io al termine della lettura, riguarda te. Ti chiedo di nuovo scusa per questa intrusione, ovviamente se non te la senti o ritiene corretto non rispondere, non farlo, ci mancherebbe! Le mie domande hanno un origine: quest'anno, dopo più di 30 anni di assenza, sono andato a fare un giro sulle Dolomiti. Il tempo non era promettente, ma l'immensa e intima gioia di raggiungere quei posti, quei bivacchi a oltre 3.000 mt, la gratitudine di camminare da solo in mezzo alla grazia e alla durezza è stato un grande dono. Per questo, adesso che certi pensieri mi battono in testa, ho queste domande.
    Ciao
    Lorenzo

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  2. ciao lorenzo,
    la casa è di remigio, e il mio tempo qui ha un termine. ho già deciso che quando comincerà a nevicare io tornerò in pianura. succederà a fine ottobre, se tutto va come sempre. poi ci sarà da affrontare l'inverno.
    ma per ora non ci penso, dai! mi piace molto quello che hai scritto, "la grazia e la durezza". forse con il brutto tempo la montagna è ancora più bella.

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  3. buongiorno capitano, bello quello che hai scritto mi piace leggere la vita delle persone.Sono arrivata a te tramite un amica che ha pubblicato sulla sua pagina in facebook il titolo "capitano, mio capitano". Bello anche quel film ! E' una frase che porto sempre con me. Ho un figlio, ha quindici anni e una diagnosi di autismo che si porta appresso come la gamba zoppa del tuo amico. Però è un gran camminatore anzi fin troppo l'ho abituato da piccolo dicono che gli fa bene. Se fosse nato in montagna direbbero che l'è un po mat ma alla fine son certa che lo capirebbero. Io ci spero sempre che lui riesca a trovare la sua guida che riesca a trovare il suo posto nelmondo. Qualcuno mi ha detto brutalmente che lui non guarirà ma queste non son cose che si dovrebbero dire ad un genitore. Nessuno ha tanta lungimiranza da permettersi di sapere quello che potrebbe accadere e se lo fa è solo perchè vuole mettersi al sicuro.
    Scusa se ti ho tediato. La gente di montagna mi ha sempre affascinata.
    Fabrizia

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  4. ciao fabrizia, benvenuta.
    grazie per quello che hai raccontato. hai tutto il mio rispetto, magari un giorno o l'altro ci ritroviamo sullo stesso sentiero.

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  5. C'é sempre qualcosa di estremo, intenso e struggente e quieto, come appena sussurrato in ciò che racconti e mi sono chiesta da dove provenga questa dolcezza che mi commuove e mi lascia sempre un segno, un desiderio, un ricordo, un nodo, qualcosa di indefinito come una pace dolente. Credo, ma non sono sicura, che la risposta stia tutta nella sorgente, al di là delle storie e delle vite intrecciate che sembrano essere la materia viva che racconti ma é come se non lo fossero del tutto o non propriamente, ciò che vedo e sento e che mi fa tornare sembra vivere nella chiarezza dei gesti lenti per fare la cosa giusta mentre fai le tagliatelle o carichi le balle di fieno sul trattore, nei rumori nitidi, nel tacere discreto per non ferire, nei tuoi ritorni barcollanti e nei passi serali per afferrare gli odori che cambiano. E i silenzi dilatati dagli scarponi sulle assi di legno e poi la amata solitudine di cui a volte sembri scusarti, questo più di ogni altra cosa sento di comprendere, di voler venire ad amare qui, quasi fosse la mia.

    Ciao Capitano

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  6. ciao paolo, è bello leggerti, mi capita spesso... vivo nella routine, sono ingabbiato in un mondo televisivo che anche tu hai conosciuto... leggerti mi aiuta a capire quali altri luoghi geografici e metali avrei potuto percorrere... le cose accadono e a me è accaduto di non prendere il percorso che invece hai preso tu... mi è accaduto di smettere a poco a poco di scrivere, ma se ripenso al periodo in cui studiavamo nella stessa aula mi viene un po' di malinconia, ma anche la gioia di sapere che anche io, se davvero mi fossi impegnato, ce l'avrei potuta fare. sei un esempio e uno stimolo. continua così, capitano.

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  7. Caro Paolo,
    chi riesce a stare bene con se stesso, come fai tu, in mezzo alla natura, (come ti invidio, quanto vorrei poter trascorrere una intera estate tra le cime), in compagnia degli spiriti delle vecchie case, non ha bisogno di dimostrare a nessuno di essere capace di relazioni affettive con gli altri esseri umani.
    Leggo raramente questo blog, ma non ne vengo mai delusa. Come fai a scrivere così bene ? Non è adulazione, credimi.
    Con simpatia,
    Ornella

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  8. Hey, Mr. Walden!
    Ho comprato da poco un tuo libro. In copertina c'è un paesaggio di montagna con una roulotte e qualche pino. C'è anche una sedia da campeggio, quel che rimane di un fuoco, una bicicletta e, dalla finestra della roulotte, si vede la faccia di un bimbo che si guarda attorno.
    Mr Walden, tu sei un tipo furbo: hai scelto la baita, ben sapendo che vivere in roulotte fa schifo.
    Tra poco ti leggerò, e non vedo l'ora.

    Andrea

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  9. quante visite, e meno male che volevo stare solo!
    elena: non sarai mica una scrittrice, vero? perché mi sembra di riconoscere la mano, e quella voce suadente dei cantastorie.
    alberto, mi ricordo bene di te. qua c'è posto se vuoi cambiare vita. e tra un po' ricomincia un certo laboratorio di scrittura, perché non mi vieni a trovare lì?
    ornella, grazie per i complimenti. ti giuro che ogni parola è sudatissima, anche quando finirà solo su questo blog. riscrivo e riscrivo e riscrivo, prima che suoni "bene".
    andrea: tu invece sei un tipo simpatico. quelli non sono pini, sono larici! ti rimando al post sugli alberi, studia che poi ti interrogo.

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  10. Capitano, hai ragione mi sono lasciata prendere un pò la mano. Ma quello che ho scritto lo penso davvero. Non sono una scrittrice, ma di certo un'appassionata lettrice. E mi piace tanto ciò che stai vivendo ora, e che scrivi e come lo scrivi. Scrivere é vero, é sempre stato un sogno nemmeno troppo nascosto. Verrei di certo a trovarti al tuo laboratorio se vivessi più vicino, ma da Roma non é davvero una cosa realizzabile... Quindi mi accontento di leggerti da qui, e comprando i tuoi libri..
    Ciao Capitano
    Elena

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  11. Carissimo Paolo,
    non solo le parole, ma anche le virgole si sentono studiate nei tuoi testi.
    Quanto dici mi ricorda Francis Scott Fitzgerald, che mi sembra rivedesse i suoi scritti più volte, riducendo ogni volta il numero delle parole, al fine di esprimere idee e situazioni con la massima chiarezza.
    Qualcuno può anche non crederci, ma scrivere, bene naturalmente, è il mestiere più faticoso del mondo.
    Con stima e simpatia,
    Ornella

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  12. Già, meno male che volevi stare da solo... :)


    Eleonora

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