Ogni mattina dalla fontana pende una lunga colonna di ghiaccio. Quando esco per fare legna la spezzo, la stringo in mano finché non si incolla alla pelle, la lascio a galleggiare e sciogliersi tra gli aghi di larice. Se la notte è stata limpida, il termometro esterno segna meno cinque gradi. Lì vicino ho trapiantato un arbusto di pino mugo, e passo a vedere come sta. Viene dalle Dolomiti, me l’ha portato un amico. Anche se questo non è il suo terreno, spero che attecchirà sotto la neve e arriverà a primavera. Ma non c’è tempo per stare a coccolarlo, le mani intirizziscono in pochi minuti. In casa accendo il camino, preparo il caffè, ricostruisco il percorso notturno del topo che mi tiene compagnia. Non so più cosa fare con lui. All’inizio era timido, usciva solo di notte. Poi ha capito di avere un padrone di casa buono, e ha preso confidenza: ora me lo ritrovo sulla mensola della farina e del riso, dentro la ciotola del pane. Così non si può andare avanti. Uno di questi giorni dovrò fare appello al boscaiolo canadese che è in me, prendere la scopa e farlo fuori. Il bastone l’ho rotto attraversando un torrente l’altro ieri. La punta di metallo si è incastrata tra due massi, ho fatto leva per estrarla e il legno ha ceduto. Ho deciso che, per quest’anno, non ne cercherò uno nuovo. Ho tenuto i pezzi di quello vecchio: il legno lucido di cembro, graffiato dai sassi delle pietraie, finirà nel camino l’ultima sera. Poi smetterò di affezionarmi ai topi, ai bastoni e alle scarpe, che ormai mi si disfano intorno ai piedi.
Rambo sostiene che scenderà quando finisce il vino. Molto divertente, ma non ci casco. Stamattina è passato di qua per invitarmi a pranzo, ha detto: però non aspettarti niente, ho solo patate e formaggio, invece quando sono arrivato c’era il bollito che andava. E il vino era di bottiglia, un rosso appena stappato. Quello delle damigiane è finito da un pezzo. La verità è che, senza bisogno di consultarci, abbiamo deciso di andar via tutt’e tre verso il primo novembre, Rambo, Remigio e io. Uno ha trovato una stanza in paese, la sta svuotando dai vecchi mobili per metterci dentro una stufa, una branda e un tavolo; uno si sposta nella casa d’inverno, anche se è l’ultimo che passerà lì; l’altro torna in città, dove guarderà le montagne dal finestrino, facendo la coda in macchina sul ponte della Ghisolfa, e la mattina saprà se in giardino ha nevicato o no. Vorrei vedere un cervo prima di andare via. Durante la settimana, al tramonto, l’ultima curva della strada è un ritrovo di cacciatori: i cervi escono a quell’ora e brucano al margine dei pascoli, dove l’erba è più ricca che in mezzo al bosco. Per sei giorni i cacciatori li tengono d’occhio con il binocolo, ne memorizzano movimenti e orari. I cervi non sanno che il settimo sarà fatale, dovrebbero starsene nascosti la domenica, santificare le feste.
Lassù ormai è difficile andare, di mattina la montagna è coperta da una crosta di ghiaccio. Io approfitto di un pomeriggio di sole, parto subito dopo pranzo, so di avere cinque o sei ore prima del buio. Poi è come registrare un nastro da portarsi via. Salire fino al colle e scoprire ancora, dopo tanti mesi, un versante sconosciuto, percorrere un sentiero mai preso. Scendere dall’altra parte fino a una conca in ombra. Spiare dalla finestra dentro un alpeggio chiuso: il tavolo, le sedie, i barattoli allineati sul piano della cucina, i piatti impilati, le lattine delle conserve, come se qualcuno fosse appena partito e avesse riordinato prima di uscire. Ignorare il sentiero che scende a valle e scegliere una linea logica, bella per chi coglie la bellezza di salire tra i salti di roccia e il bosco fitto, e attraversare in alto, dove passano i camosci. Trovarne le tracce, fidarsi del loro senso d’orientamento. Superare le tane deserte, i tronchi spezzati, i larici in fiamme, attraversare una lunga pietraia facendosi strada tra i rododendri spogli. Raccogliere due pigne di cembro da mettere nella grappa. Assaggiare i mirtilli d’ottobre, le piante ormai senza foglie ma ancora cariche di bacche, ghiacciate dal gelo notturno, avvizzite, scure, dolci come uva passa.
La facevo anche da bambino questa cosa, un ultimo giro per salutare i sassi e gli alberi. Scrivevo dei biglietti e li nascondevo nelle rocce spaccate, nelle fessure della corteccia. Così le mie parole sarebbero restate lì anche dopo di me: proprio come queste, gettate al vento. Poi tirava aria di neve, ed era l’ora di tornare in città. Conosco già il sogno che farò d’inverno.
martedì 26 ottobre 2010
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