(Tanto per riconciliarmi con la città, pubblico anche qui il pezzo uscito questo mese nel magazine di minimum fax. Naturalmente è dedicato a Gabbole, mai nessuno fu più bello da vedere.)
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Era di nuovo autunno, quello del 1993. Noi lanciatori di città ci allenavamo tre volte alla settimana in un campo sportivo vicino all’aeroporto, tra le piste d’atterraggio e il luna park. Dopo la scuola prendevamo la metropolitana, cambiavamo un autobus e poi un altro, e schiacciati contro il finestrino osservavamo la città diradarsi, dall’architettura fascista di piazza San Babila ai viali dai nomi risorgimentali ai palazzi degli anni Sessanta in cui eravamo cresciuti anche noi, fino ai viadotti ferroviari, i cantieri aeronautici dismessi, le baracche e gli orti abusivi, il grande specchio d’acqua dell’idroscalo. Erano tutte parole di una lingua morta. L’anno prima, a Barcellona, Jan Zelezny aveva vinto l’oro scagliando il suo giavellotto oltre i novanta metri: ogni racconto su di lui sembrava scritto per diventare leggenda, qualcosa a cui pensare durante quei lunghi viaggi verso Linate. Zelezny veniva da una famiglia povera. Zelezny era sopravvissuto facendo il cuoco, il soldato, il meccanico. Zelezny aveva tentato e fallito la fuga, cercando fortuna nel campionato americano di baseball, tornando indietro a mani vuote. Nessuno di noi aveva mai visto la Cecoslovacchia, ma sopra il nostro cielo c’erano nebbia d’inverno, zanzare d’estate e rombi d’aereo durante tutto l’anno: l’Europa dell’est non doveva essere tanto diversa.
Gli allenamenti erano duri e monotoni come esercitazioni militari. Tecnica di lancio, scatti su pista, potenziamento in palestra, esercizi con l’elastico e la palla medica. L’atletica leggera è una disciplina ossessiva, in cui lo stesso gesto viene ripetuto all’infinito alla ricerca della perfezione: ogni passo, salto, lancio, è scomposto in unità di movimento, e ogni movimento va studiato, corretto, calibrato, fino al massimo dell’efficienza, e infine questa sequenza meccanica, eseguita in concentrazione, dev’essere disimparata dalla testa e imparata dal corpo, e diventare fluida, facile, come andare in bicicletta o nuotare. Forza e velocità sono questione di lavoro, ma cosa c’è di più difficile che raggiungere la grazia? Per noi ragazzi allora era un’impresa esistenziale. Avevamo quattordici o quindici anni e corpi che non sembravano più nostri. Ogni gesto ci usciva goffo, le cose cadevano e si rompevano, le dichiarazioni d’amore venivano fraintese. Invidiavamo gli studenti dell’ultimo anno, a cui bastava accendere una sigaretta e soffiare il fumo verso l’alto, scompigliandosi il ciuffo sulla fronte, per illuminare la scena. Noi avevamo capelli tagliati in casa, ossa doloranti per la crescita repentina. E più il corpo si allungava, inciampava e disobbediva, più il perfezionamento del lancio diventava la nostra rivincita, un assalto all’arma bianca contro la crudeltà della natura.
Eravamo in cinque a Linate quell’anno. I pesisti erano due dell’istituto tecnico, entrambi alti, grossi, sopra il quintale, uno moro e loquace e l’altro biondo e taciturno, che stavano sempre tra di loro. Grandi pacche sulle spalle dopo una buona misura, prese di lotta libera a tradimento. Il martellista era il figlio del custode, un ragazzo obeso che per qualche mese aveva cazzeggiato a bordo pedana, fumando e sbeffeggiando i nostri tentativi, prima di unirsi al gruppo. Andava in giro per il campo sportivo con una di quelle biciclette dalle ruote minuscole, che abbandonò dopo essere diventato un atleta: arrivava prima di tutti, se ne andava per ultimo, bestemmiava in pugliese stretto quando la palla di sette chili moriva impigliata nella gabbia. Il discobolo era il mio migliore amico. Indolente, spaccone, sempre in ritardo, preferiva le chiacchiere dello spogliatoio e le sedute in palestra, a sfidarci io e lui alla panca, piuttosto che i noiosissimi esercizi di tecnica e il freddo umido che inzuppava le ossa. Però era un esteta degno di Mirone. Altri lanciavano più lontano, lui era convinto di lanciare meglio. Sosteneva che gli sarebbero bastati un po’ più di chili e muscoli, per sbaragliare i muratori bergamaschi che erano i suoi avversari abituali. Ma come in tante altre cose non aveva la costanza di applicarsi. La fatica lo annoiava. Forse avrebbe dovuto allenarsi davanti allo specchio, come i pugili e le ballerine, rapito dalla contemplazione del suo talento sprecato.
A me avevano dato il giavellotto perché ero leggero e veloce, e tra tutti è l’attrezzo che richiede meno forza bruta. È anche quello che va più lontano: Zelezny lo scagliava a novantotto metri, in pratica dall’altra parte dello stadio. Io puntavo a meno della metà per essere ammesso ai campionati italiani. Per un po’ fu il mio attrezzo del mestiere, l’oggetto più familiare per il mio corpo in piena metamorfosi: e ancora adesso, se mi concentro, sento nel palmo della mano l’impugnatura di corda, la lunga lancia in equilibrio sulla spalla prima della rincorsa, le punte del pollice e dell’indice che si toccano, l’odore dell’erba.
Per ognuno di noi, l’allenatore aveva recuperato il video dell’oro olimpico, stampato ogni fotogramma su un foglio A4 e appeso i fogli in fila sul muro dello spogliatoio. Un secondo perfetto, frammentato in una ventina di istantanee, come un’esplosione al rallentatore. Così cambiandomi studiavo i gesti di Zelezny a Barcellona, li mimavo uno per uno, cercavo di impararli a memoria per poi rimettere insieme l’intero movimento. I passi fondamentali del lancio del giavellotto sono gli ultimi tre, ed è una specie di balletto che sapevo danzare a occhi chiusi. Li ripetevo alla fermata dell’autobus, nel corridoio di casa. Piede sinistro, destro, sinistro. Il braccio è teso indietro, in linea con le spalle; la schiena leggermente arcuata. Quando il piede sinistro si blocca, l’energia cinetica accumulata nella rincorsa percorre la gamba destra, sale attraverso la rotazione del ginocchio e dell’anca, fa scattare la schiena come una fionda e poi arriva alle spalle, e poi bum, l’esplosione. C’era il sibilo del giavellotto nell’aria, e quel tempo che sembrava infinito prima che si conficcasse per terra, quaranta metri più in là, vibrando come un diapason.
Non ho mai trovato un gesto che mi venisse più naturale. Anche da bambino non facevo che lanciare le cose. C’erano certi pomeriggi in cortile in cui nessun sasso o ramo o lumaca poteva sfuggire alla cattura e al decollo. O domeniche di silenzi cupi, il mormorio della televisione in salotto, il tintinnio dei piatti in cucina, ma il bambino sul balcone, quello che bombardava uccelli e macchine e qualsiasi oggetto in movimento nella città addormentata, quel bambino taciturno e spietato ero sempre io. Ero cresciuto in un palazzo di otto piani sulla circonvallazione: bastava sporgere una mano e aprirla e tutto cadeva giù, nel fiume stanco di auto dai fanali accesi.
L’aerodinamica e la trigonometria, studiate la mattina a scuola, in pedana diventavano argomento di dibattito. Uno tende a lanciare troppo in alto se nessuno gli insegna la giusta inclinazione. Poi bisognerebbe considerare la direzione del vento, e anche in questo caso il buon senso inganna: nelle gare di velocità, nei salti, le misure vengono annullate quando c’è troppo vento a favore; con i lanci succede l’opposto, è il vento contrario a far decollare un aeroplano. Dunque si trattava di prendere un giavellotto dal mazzo - e c’era sempre il tuo preferito, quello blu, appena più lungo e sottile, spuntato per essere atterrato sul cemento chissà quante volte - e percorrere la pedana fino al punto segnato col gessetto. Lì cominciava la rincorsa misurata tante volte, quei venti metri che erano l’unico spazio al mondo soltanto tuo. Sentire il vento: se soffia sulla nuca bisogna lanciare più in alto, se soffia in fronte più in basso. Respirare. Non pensare più ai gesti a quel punto, fidarsi del corpo, lasciarlo fare. Pensare a Zelezny e ai cieli di Jena in Cecoslovacchia e partire. Tutto il lancio durava un niente. Il giavellotto saliva su, sempre più su, nel vento contrario.