Da un po’ di tempo avevo il sogno di fare il cuoco, possibilmente in una nave mercantile o in un rifugio di montagna. Credo che a Carver sarebbe piaciuto: ci sta bene un mestiere così nel curriculum di uno scrittore. E poi si sa, nelle cucine il vino scorre a fiumi. Insomma: un po’ per inseguire i miei miti, un po’ per avere la scusa di tornare quassù, ho trovato lavoro in un ristorantino. Farina gialla, toma d’alpeggio, carne di manzo e di maiale sono state le mie materie prime nelle ultime settimane. Nove chili di salsiccia al giorno, teglie di lasagne e di crespelle, enormi paioli di polenta da conciare con burro e fontina. Fuori i pascoli coperti di neve e i boschi in cui correvo d’estate, osservati attraverso una finestrella appannata dalla condensa. Mi manca quella libertà, però sto bene. È un lavoro gratificante e duro, dare da mangiare alle persone. Lascia dei segni in bocca e sulla pelle. Ora ho mani da cuoco, che non sono mani da falegname ma ci vanno vicine: arrossate dai detersivi, piene di ustioni e di tagli e dei buchi della maledetta affettatrice.
Tra i pasti che prepariamo, ci sono quelli per i lavoratori degli impianti. Verso le undici e mezza riempiamo alcune borse termiche con una bottiglietta d’acqua, un sacchetto di carta con pane e formaggio, un thermos diviso in tre scomparti per il primo, il secondo e il contorno. Un ragazzo viene a ritirare le borse e le distribuisce ai suoi compagni. Una di queste prende la seggiovia, risale le piste e arriva a quota 2100, dove lavora Rambo. Il suo compito è aiutare la gente a smontare dal seggiolino, rallentando le macchine per i bambini, fermandole se qualcuno inciampa o cade, porgendo la mano alle signore. Siccome non mangia verdura il suo contorno torna sempre indietro, e così noi, in cucina, quando svuotiamo i thermos per lavarli riconosciamo quello di Rambo. È il modo che abbiamo per comunicare a distanza.
Alle quattro e mezza, chiusi gli impianti, viene giù a bere il caffè. È un uomo grande e grosso, ma otto ore all’aperto, d’inverno, a più di duemila metri, non sono uno scherzo nemmeno per lui. Se ha fatto freddo - e qui il freddo significa tra i dieci e i venti gradi sotto zero - quando entra al ristorante ha la faccia rossa, bruciata dal gelo, e delle rughe intorno agli occhi che non gli avevo visto mai. Come me, è contento di lavorare ma gli mancano i pascoli, le mucche, la baita in cui viveva con niente, la sua sconfinata libertà: il lavoro salariato è una necessità e una tortura, l’inverno è un conto alla rovescia, il primo maggio Rambo torna pastore.
Verso sera, mentre strofino le pentole con la paglietta di metallo, anche Remigio attacca a lavorare. Si infila la sua divisa, sale sul gatto e batte le piste fino a mezzanotte. Dice che la neve è un materiale come un altro. Bisogna pensarla come sabbia in un cantiere. I cannoni la producono, i gattisti la stendono su per le piste, gli sciatori la scavano, la ammucchiano, la spostano verso il basso, i gattisti la rimettono dov’era prima. Tutto lì. Da casa, di notte, assisto al lavoro che di giorno non si vede. Ogni cannone è dotato di un faro, così sembra sparare nel cielo non neve, ma lapilli di lava, e una fila di esplosioni lontane illumina la montagna. Il gatto passa davanti al mio balcone ogni mezz’ora, i lampeggianti accesi, i cingoli che spianano qualsiasi gobba, enorme bestia notturna che non teme il freddo né il buio. Remigio il solitario, il lettore, il costruttore di case magiche, l’osservatore di animali selvatici, l’amante dei lupi, lavora su una di queste macchine. Così va la vita d’inverno per via dell’oro bianco, da cui tutti noi in un modo o nell’altro dipendiamo.
Abbiamo un rapporto controverso con gli sciatori. Sono clienti. Sono l’unica risorsa economica della montagna. È triste osservare i cannoni, le seggiovie, le doppie file di macchine parcheggiate sulla strada, le tute e gli scarponi e i caschi che rendono le persone simili ad automi, però senza di loro non ci sarebbe nemmeno il resto, i miei amici emigrerebbero altrove, la mia casa sarebbe un cumulo di vecchi sassi, la cucina in cui lavoro non esisterebbe nemmeno. Cerco di ricordarmelo, quando questo parco giochi mi fa rabbia.
Di buono c’è che dura poco. Lunedì 10 gennaio, da un giorno all’altro, sono spariti tutti. Era la prima mattina libera dalla vigilia di Natale, e così, nonostante il nebbione in cui eravamo immersi, con Remigio abbiamo deciso di andarcene via con le ciaspole. Dopo mezz’ora, finito il bosco, era già tutto dimenticato. Le persone, il loro rumore. Solo la nebbia e una labile traccia davanti e quei posti conosciuti a memoria - lì d’estate c’è un masso a forma di torre, lì una sorgente, lì una distesa di rododendri - resi desertici e lunari dalla neve. Anche i selvatici, che vicino alle piste sembrano svaniti nel nulla, quassù lasciano tracce del loro passaggio. La volpe fa il giro degli alpeggi cercando avanzi di cibo. La lepre è attratta dai ciuffi d’erba secca sotto gli abeti. La martora segue percorsi di caccia, strategie misteriose ma evidenti come pieghe su un lenzuolo. Su in alto i laghi non ci sono più. Quando arriviamo alla conca Remigio scava nella neve con il bastone, e dopo un po’ trova il ghiaccio vivo. Ci siamo proprio in mezzo. Sospesi sopra il lago, avvolti dalla nebbia, ci sediamo a mangiare un pezzo di pane e formaggio. Sotto di noi, in un’acqua densa e nera, sognando la luce di luglio dormono i pesci.
martedì 11 gennaio 2011
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