Da molti secoli il terreno che ho intorno, ricco di sorgenti e ben esposto al sole, è stato disboscato, liberato dai sassi e terrazzato dov’era necessario, prima per coltivare la segale e pascolare le mucche, poi per le piste da sci. Fino agli anni Cinquanta era difficile trovare un albero da queste parti. Nelle vecchie cartoline i campi coltivati si spingono ad altezze oggi impensabili, e tutta la montagna ha l’aspetto di un prato ben curato. Poi, nel dopoguerra, è cominciato l’esodo dalle terre alte, e così il bosco ha riconquistato terreno. Succede anche adesso: bastano pochi anni senza fienagione perché in un prato spuntino i primi arbusti. In altre zone il rimboschimento è stato pianificato. Produrre legname era forse meno redditizio, ma anche molto meno faticoso che coltivare cereali o mantenere in ordine un pascolo. Il bosco di larici che ho vicino a casa è nato allora: sono alberi giovani, di una cinquantina d’anni o poco più, diradati in modo che in mezzo continui a crescere un po’ d’erba per le bestie. Infine, tra gli anni Settanta e Ottanta, una parte degli stessi alberi è stata abbattuta, per fare spazio alle piste che tagliano i fianchi della montagna come scie di valanghe. Sono comparsi i piloni degli impianti e certi pendii accidentati sono stati spianati e seminati a erba, e così il luogo ha assunto più o meno le sembianze che ha ora. Perché mi sono avventurato in questa ricostruzione? Perché certe volte ho bisogno di ricordarmi una cosa molto semplice: che il paesaggio che ho intorno, dall’aspetto così autentico e selvaggio, fatto di alberi, prati, acqua, sassi e sentieri, è in realtà il prodotto di molti secoli di lavoro umano, è un paesaggio artificiale tanto quanto quello di una città. Senza l’uomo, niente qui intorno avrebbe la forma che ha. Nemmeno il ruscello né certi alberi maestosi. Perfino il prato in cui sono seduto a scrivere sarebbe un bosco fitto, reso impenetrabile da tronchi e rami caduti, dai cespugli degli ontani intorno ai corsi d’acqua, dai massi coperti di muschio e aghi di larice, da un sottobosco folto di ginepro, mirtillo e radici intricate.
Così le mie esplorazioni nei paraggi hanno spesso il carattere di un’indagine, il tentativo di comprendere che cos’è successo qui prima di me. È come il lavoro del geologo, che nella forma e qualità delle rocce legge una lunga storia fatta di glaciazioni, alluvioni, eruzioni e scosse della terra. Meno romanticamente, raccolgo rifiuti. Un vecchio secchio di legno marcio e mezzo sepolto nel letamaio, una serratura arrugginita. La storia che interessa a me è tutta umana: perché, per esempio, la baita dietro la mia ha quell’ampliamento su un lato? Forse le cose a un certo punto sono andate meglio, e la famiglia ha avuto bisogno di una stalla più spaziosa? È la più grande di tutte, ma anche la più spartana. Finestre minuscole, tre tavole sconnesse a fare da balcone. La terza baita, misteriosamente, ha la pianta invertita, e la facciata rivolta a nord. Anche qui ci dev’essere un motivo: questioni di confini da rispettare, i soliti litigi tra vicini? La quarta baita infine è la più curata, forse anche la più recente. Ha un balconcino con qualche tentativo di decorazione, i vetri alle finestre e perfino l’intonaco sui muri esterni. Un impasto grezzo, con qualche gobba qua e là, di un bianco sporco che mi piace molto. Fuori ci sono due piccoli recinti addossati alla casa, per le galline o i conigli o qualche altro animale domestico. Siccome il villaggio è disposto in leggera salita, la baita bianca domina dall’alto quella girata all’incontrario, quella con la stalla grande e la mia, che in compenso gode di un panorama senza ostacoli.
Osservandole a volte mi chiedo: ci sarà stato davvero un tempo in cui Fontane era un villaggio abitato? Con le sue quattro case riscaldate dal fuoco, le bestie nei pascoli qui intorno, i ragazzini, i cani, le galline? Oppure è un’età del sogno che non è mai esistita se non nelle storie? Nessuno, nemmeno i vecchi del paese, ricorda la montagna a quell’epoca. Quando loro erano bambini, i campi erano già abbandonati e gli uomini cercavano lavoro in pianura. Erano i vecchi di questi vecchi a raccontare di quando la montagna assomigliava a un giardino fiorito, abitato da un popolo laborioso, e chissà poi se non erano anche quelli racconti di racconti. Ho l’impressione che il presente, quassù, da molto tempo sia un mucchio di cocci che non è più possibile rimettere insieme. Si può solo girarseli tra le mani e immaginare a che cosa servivano, come succede a me quando smuovo una pietra e ci trovo sotto una vecchia lattina contorta: una lattina di birra, di quelle con la linguetta che si staccava, come non se ne vedono più da vent’anni.
Anche se fa un po’ ridere, ognuna delle quattro baite ha il suo numero civico. A un certo punto qualche funzionario comunale deve aver ricevuto il compito di registrare tutti gli edifici, e così capita di andare a camminare in montagna, sbucare in una di quelle magre radure in mezzo alle pietraie, scorgere un rudere con il tetto crollato e trovare sopra la porta la targhetta con il numero. Il mio è l’uno. Un giorno o l’altro scenderò in pianura e mi spedirò una cartolina, frazione Fontane numero uno, e poi tornerò qui ad aspettare il postino che arranca su per il sentiero. La baita con la stalla grande ha il numero due, quella girata all’incontrario il tre, quella bianca il quattro. Ma lì ci abitano solo i ghiri, i tassi e i topi che sento muoversi quando mi avvicino. Sono io la popolazione. Rappresento, allo stesso tempo, l’abitante più in vista e quello caduto in rovina, il nobile possidente, il fedele custode, il servo della gleba, l’ubriacone, l’eremita, lo scemo del villaggio, il vecchio saggio e il giovane sprovveduto, il sovrano e il suddito del mio regno: ho così tanti me tra i piedi che a volte la sera esco, e vado a fare un giro nel bosco per stare un po’ da solo.