E così sei un sovversivo, mi dice versando il vino, dopo che abbiamo discusso per un po’ della situazione politica. È un punto dolente da quando vivo qui: gli uomini come lui parlano da razzisti e maschilisti, vestono con abbigliamento militare, credono nelle maniere forti e guardano con sospetto chiunque intenda un modo diverso di essere uomo. Eppure, nella vita di tutti i giorni, siamo molto più simili di quanto le nostre idee dimostrino, così di solito evito l’argomento. Se sento qualche discorso che non mi piace protesto apertamente, ma poi non mi va di stare lì a litigare. Mi pare che non serva a nulla. Per come la vedo io è la vita che ti cambia le idee, non le parole. E poi sono convinto che sia molto più anarchico lui di me: Rambo che non ha un lavoro fisso né una famiglia tradizionale, non possiede una televisione né un computer, non mette piede negli uffici pubblici, nelle banche, nei centri commerciali, non è rintracciabile in rete, non fa numero in nessun sondaggio né analisi di mercato. Un uomo così, che si è costruito un’esistenza ai margini e lì ci vive felicemente, senza seguire regole imposte da qualcun altro, è quanto di più sovversivo io riesca a immaginare per quest’epoca, però non trovo le parole per dirglielo. Quando mi avventuro in discorsi complicati mi accorgo che mi guarda storto, e se uso parole che non capisce smette di ascoltarmi. Così lo accontento. Annuisco e basta. Forse hai ragione tu, dico. Mi sa proprio che sono un sovversivo.
Lui non dice le mucche, dice le baracche. È un modo affettuoso che ha di chiamarle, perché sono goffe e pesanti e hanno paura di tutto. “Mettiamo a nanna le baracche”, dice. Poi spalanca il portone della stalla, apre un varco nel filo elettrificato e con pazienza le chiama. Vièn, vièn, vièn. Quando la capobranco si muove verso di lui, le altre la seguono docilmente. Per la mezz’ora successiva dalla stalla arrivano grandi bestemmie nel dialetto che ho cominciato a capire. Al momento di essere legate le mucche si ribellano: girano su se stesse, si scambiano di posto e si mettono di traverso, così bisogna convincerle con altri mezzi, e spingerle e tirarle in quel caldo opprimente, umido del loro fiato e sudore. Poi per fortuna Rambo ne ha da mungere due, ed è così che ritrova la calma. È un gesto che fa da quando era bambino e lo rilassa molto. C’è chi munge con il pollice piegato dentro al pugno, mi spiega, usando la nocca per stringere la mammella, ma a lui quel modo non piace perché è poco delicato. Preferisce usare tutta la mano anche se è più faticoso. Vedi come?, mi fa. Mentre mi mostra la sua tecnica, il secchio con il latte è rimasto lì nell’angolo e quando ci voltiamo è vuoto. Saranno stati cinque litri. Lupo si aggira con le orecchie basse, il passo di un cane sazio e colpevole. Se l’è bevuto tutto lui.
Mi parla spesso di un mondo perduto in cui, lassù nel villaggio, ogni casa era abitata da una famiglia. Uomini al lavoro nelle stalle, ragazzini nei pascoli, le donne a occuparsi degli animali da cortile. Due ore di mulattiera per arrivare dal paese. Polenta e latte a pranzo e cena. Bastavano poche settimane per dimenticarsi della civiltà, levarsi di dosso scarpe e vestiti e tornare allo stato selvatico. Per la carne cacciavano le marmotte: di camosci e caprioli in giro non se ne vedevano, estinti da secoli di bracconaggio. Eppure, ci tiene a dirmi che il pastore è quello che ha le pecore, per chi ha le mucche c’è un’altra parola. Vacquier. Non è una differenza da poco. Il pastore di pecore era un nomade, pascolava sui radi prati d’alta quota e dormiva all’aperto, il pastore di mucche invece era un sedentario. Con campi suoi, una casa, una stalla.
Poi, chiacchierando, ho scoperto che questo mondo non l’ha mai visto davvero. Quand’era bambino lui, il villaggio era già abbandonato. In queste case vuote e cadenti inventava i suoi giochi. La montagna abitata non è un ricordo, ma una leggenda dell’età dell’oro e un sogno di felicità: gli piacerebbe venire su con i suoi due figli, che hanno diciannove e vent’anni e sono più grossi di lui, e poi galline, un asino, un paio di capre e maiali. Parla spesso di comprarsi quel po’ di bestiame che basterebbe per vivere in autonomia. Invece ha solo il cane, e nemmeno una mucca sua. Gliele mandano su per quattro mesi all’anno dalle stalle di pianura. I prati intorno al villaggio sono tutto quello che possiede.
Anzi no: i prati, e una stalla da quaranta posti, e un trattore scassato, e una piccola baita di una sola stanza. Il muro a monte andrebbe rimesso a posto, perché sta facendo la pancia che prima o poi lo porterà a crollare. Al tetto manca qualche losa, e le assi del soffitto annerite di fumo si infradiciano ogni volta che piove. La stanza è stipata di oggetti. Una collezione di collari e campanacci di ogni dimensione. Le coppe vinte alla battaglia delle regine. Le foto dei bocia quand’erano piccoli e delle mucche migliori. Una vetrinetta di cristallo (con dentro un paio di calici sbeccati, il boccale da un litro di una festa della birra, i bicchieri della Nutella), un mobiletto in truciolare degli anni Sessanta (segato a metà in altezza perché non ci stava), un piccolo e molto più antico armadio a muro, solo due ante e un fermo a chiudere una nicchia nella pietra. I piatti di legno, il paiolo di rame. Gli strumenti per fare il formaggio appesi sopra la stufa.
Lì dentro ho passato molte serate anch’io. Siccome a me piace cucinare e a lui no, ma a nessuno può dispiacere cenare con un amico, certe volte ci organizziamo così. Io salgo a casa sua verso le sette, prendo la grossa chiave nascosta sotto una pietra, entro e accendo la stufa. Se ci sono pentole e piatti sporchi, vado a lavarli alla fonte. Lì Rambo ha sistemato una vecchia vasca da bagno che usa come tinozza per sé, i vestiti e le stoviglie. C’è un asse di legno con il sapone, una spazzola, alcune vecchie pagliette. Mi fa uno strano effetto lavare i piatti sotto i larici alla luce del tramonto, e usando acqua gelida e niente detersivo c’è parecchio da strofinare, ma non riesco a immaginare un lavatoio più bello di questo. Riempio d’acqua la pentola della pasta. Quando torno dentro la stufa è già ben avviata e io accendo la radio, metto l’acqua a scaldare, pelo le patate e aspetto che lui torni. A quel punto butto gli spaghetti. Pasta al pomodoro, patate bollite e formaggio sono la nostra dieta quotidiana. Non esattamente alta cucina. Ma Rambo è contento di trovare la cena pronta, e divertito quanto me da questi ruoli che ci siamo dati: una volta c’era il casaro, mi dice, che faceva il tuo mestiere. Lui le mucche non le toccava nemmeno. Il suo compito era quello di fare il formaggio e di cucinare per tutti, a colazione, pranzo e cena. Bè, gli dico, se mi insegni a fare il formaggio io faccio volentieri pure quello. E lui: magari una volta o l’altra ci proviamo.
Quando invece è lui a venire giù da me si siede sempre nello stesso posto, sulla panca, le spalle al muro per osservare la casa. Tu sì che vivi bene, mi dice guardandosi in giro, perché ho una cucina vera, un caminetto e perfino un divano, il bagno, l’acqua corrente, i muri dritti e il tetto tutto intero e non devo stendermi sotto al tavolo quando piove. Mi porta sempre un chilo di pasta o un pezzo di formaggio. Una volta è arrivato con un pollo arrosto che si era procurato chissà dove. Un’altra volta era andato a lavorare giù in pianura, a spaccare legna e spostare roba nella cascina di un suo amico, ed è tornato con un sacco di riso da cinque chili che mi ha lasciato in regalo. Rideva tutto contento perché laggiù un bambino gli aveva chiesto: come mai ti chiamano Rambo? È perché sei molto forte?
Alla fine ha un modo elaborato di andar via. È una specie di cerimonia che ci ho messo un po’ di tempo a decifrare. La prima volta ha detto: bien, mi sa che adesso vado; e così io mi sono alzato per aprirgli la porta e salutarlo. Lui mi ha guardato strano e ha chiesto: hai tanta fretta? Io no, ho risposto. Ho scrollato le spalle e mi sono rimesso a sedere. Così ho capito che, prima di farlo sul serio, deve dire adesso vado almeno cinque o sei volte, e può passare un’ora nel frattempo, un altro caffè, un’altra storia dei tempi andati, un’altra bottiglia di vino. E naturalmente ho dovuto imparare a fare altrettanto. Quando sono su da lui, a un certo punto della serata mi stiracchio la schiena, dò un’occhiata al buio che c’è fuori e dichiaro: adesso vado.
Prendi un altro pezzo di formaggio, risponde lui, ignorando le mie parole e riempiendomi ancora il bicchiere. Strizziamo un altro bottiglione?
Perché no, rispondo io (quassù non si beve e non si mangia: si trita una costina di maiale, si strizza una bottiglia di vino).
Alla fine, come una clessidra, è proprio la bottiglia a dire quando il tempo è scaduto. Finché c’è vino si resta. Quand’è finito, o fai un’altra spedizione in cantina o ti rassegni ad andare a dormire. E non è mai una decisione facile.
Il 29 giugno, San Pietro, patrono dei montanari, dopo cena saliamo insieme fino alla stalla. Lui ha passato il pomeriggio a fare avanti e indietro dal bosco, riempire il rimorchio di rami secchi e ammucchiarli vicino a un grande masso. Ora ce n’è una catasta alta più di un metro. Verso le dieci ci versa sopra una tanica di benzina, poi appicca il fuoco che in pochi secondi divampa. Dalla stalla arrivano i sospiri delle mucche che si muovono nel sonno, dai prati il canto dei torrenti che nella notte scendono verso valle. Noi ci sediamo nell’erba a osservare i profili scuri delle montagne, cerchiamo altri falò come il nostro. Ne contiamo tre, quattro, cinque, alcuni a molti chilometri di distanza, in posti di cui nemmeno conosciamo il nome. Quelle fiammelle gialle e tremolanti dicono: io sono qui. E anch’io, anch’io, anch’io. Poi si fanno più flebili, si estinguono una per una. Anche da noi, per via del vento che soffia da sotto in su, le scintille si alzano come sciami di lucciole contro il cielo notturno, e in breve tempo tutto è ridotto a un mucchio di braci.
Nel salutarmi, Rambo mi presta un maglione che sa di stalla e mi dice: passa pure dai prati. È un grande onore quello che mi concede. A fine giugno l’erba è già alta e se la pesti poi è difficile da tagliare, e quando trovi un camminatore che va su in mezzo a un pascolo volano parole grosse. Ma si vede che questa è una notte speciale. Con il sentiero dovrei fare un ampio giro, per i prati invece arrivo giù dritto fino a casa: scendo al buio, allargo le braccia nel vento e sento le spighe della segale solleticarmi i palmi delle mani. Lanciandosi il loro richiamo rauco i caprioli si inseguono nel bosco.
lunedì 11 luglio 2011
sabato 2 luglio 2011
UN CUORE DA BAMBINO
Ma avere un cuore da bambino non è una vergogna. È un onore. Un uomo deve comportarsi da uomo. Deve sempre combattere, preferibilmente e saggiamente, con le probabilità a suo favore, ma in caso di necessità deve combattere anche contro qualunque probabilità e senza preoccuparsi dell'esito. Deve seguire i propri usi e le proprie leggi tribali, e quando non può, deve accettare la punizione prevista da queste leggi. Ma non gli si deve dire come un rimprovero che ha conservato un cuore da bambino, un'onestà da bambino, una freschezza e una nobiltà da bambino.
Il 2 luglio di cinquant'anni fa, all'alba, il più grande scrittore americano del Novecento diceva addio al mondo. È una delle poche date che mi ricordo ogni anno. Ho idea che non scriverei come scrivo, anzi forse non scriverei per nulla, se il vecchio ubriacone non fosse passato per questa terra. Grazie di tutto Hem. Non vedo l'ora di bere un bicchiere e incrociare i guantoni con te.
Il 2 luglio di cinquant'anni fa, all'alba, il più grande scrittore americano del Novecento diceva addio al mondo. È una delle poche date che mi ricordo ogni anno. Ho idea che non scriverei come scrivo, anzi forse non scriverei per nulla, se il vecchio ubriacone non fosse passato per questa terra. Grazie di tutto Hem. Non vedo l'ora di bere un bicchiere e incrociare i guantoni con te.
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