venerdì 9 settembre 2011

BAITA MAGICA


Giù per il pendio inghiottito dalla frana gli scarponi affondavano nella terra molle: una pasta silicea, grigiastra, vischiosa come malta fresca, che rendeva ogni passo una pena. Così sono salito su un tronco sradicato e l’ho percorso in equilibrio per superare quel caos di pietre smosse, rivoli d’acqua fangosa ed enormi zolle d’erba scaraventate intorno come da un’esplosione, appoggiate in bilico su un masso o incastrate in una crepa del terreno, e anche in quelle posizioni innaturali si ostinavano a fiorire. In alto, dove si era staccata la frana, una placca scura tagliava la montagna. Roccia umida e marcia, con le radici dei larici che sporgevano a metà parete e non riuscivano a tenerla insieme. Di animali selvatici nessuna traccia. Né un fischio d’allarme sui prati, né il fruscio di una corsa tra i rami, né un rintanarsi improvviso nel ginepro ai miei piedi. Perfino gli uccelli tacevano, lasciando nell’aria soltanto un mormorio di fondo, il gorgogliare di una corrente d’acqua sotterranea. Mi sono sentito sollevato quando alla fine ho superato gli ultimi detriti, ho ritrovato una traccia di sentiero che piegava sulla sinistra, mi sono lasciato la frana alle spalle e ho ricominciato a salire.

Avevo idea di passare la notte su un prato, in riva a un lago che conosco bene, scaldandomi al fuoco e guardando le stelle d’agosto, ma non c’è niente da fare: questa è l’estate della pioggia, e quando ormai ero arrivato su ho sentito avvicinarsi il temporale. Saranno state le sette di sera. Un fronte di nuvole gonfie e scure tuonava qualche chilometro a valle, sul paese da cui ero partito poche ore prima. In riva al lago due pescatori si affannavano a montare una tendina canadese, mettendo al riparo abiti e cibo mentre il vento complicava tutto il lavoro. Arrivava a folate gelide, increspando la superficie del lago e rendendolo ancora più lugubre. Io ho puntato verso un gruppo di massi sperando che ce ne fosse uno sporgente, adatto a farmi da riparo, e salendo per i pascoli ho superato i ruderi di alcuni alpeggi. È lì che ho trovato la mia baita magica. L’ho chiamata così solo più tardi, ricordandomi dell’autobus di Chris. Era un alpeggio abbandonato come gli altri, però i muri stavano ancora in piedi e sul tetto era stata posata una lamiera. Se qualcuno lo usa ancora, ho pensato, avrà un lucchetto da qualche parte, o sarà chiuso a chiave. Ma non c’era né serratura né lucchetto. La porta era tutta storta, incastrata per via del cedimento dei muri. Ho provato a spingerla con le mani, l’ho sentita muoversi appena, e poi le ho dato una bella spallata spalancandola.

 Gli occhi ci hanno messo un po’ ad abituarsi al buio. Fuori la pioggia cominciava a picchiare sulla lamiera. Dentro non c’era nessuna finestra, ma una fessura tra le pareti e il tetto lasciava passare un po’ di luce. Il focolare stava al centro della stanza: quattro pietre piatte a delimitare il braciere, e accanto il perno girevole su cui una volta si fissava la caldaia del formaggio. Poi una mensola di legno con una lampada a olio, qualche bottiglietta vuota, una pistola giocattolo. Che cosa ci faceva lì dentro una pistola giocattolo? Era l’imitazione di un revolver, tutta rotta e tenuta insieme dal nastro adesivo. Così mi sono ricordato di quei bambini selvaggi che da piccolo vedevo in montagna, sporchi, silenziosi, tutti seri quando ci incontravano, atteggiati da adulti mentre guardavano le loro mucche, e io cercavo di immaginarmi a cosa giocavano quando noi non c’eravamo più. Ho trovato anche un pezzo di specchio inchiodato a una trave, forse per farsi la barba la mattina, e un piatto sporco, due tazze di metallo, un vecchio materasso sventrato. Saranno stati i topi a dilaniarlo, perché il pavimento era cosparso di batuffoli di lana marcia, cocci di bottiglie rotte, fieno e chissà cos’altro. Per fortuna era abbastanza buio da non vedere. Il temporale sulla lamiera ora faceva un frastuono assordante: io ho liberato meglio che potevo un pezzo di pavimento per stendere il sacco a pelo, poi mi ci sono seduto sopra e ho preso dallo zaino la mia cena. Una pagnotta, una scatoletta di carne, due mele, una borraccia di vino. Mangiare al buio si prospettava l’unico modo per ammazzare il tempo e così ho provato farlo molto piano, masticando a lungo il pane e bevendo il vino a piccoli sorsi, sperando che mi bastassero per qualche ora. Invece più tardi il temporale si è calmato. Ho trovato della legna secca in un angolo della stanza e sono riuscito ad accendere un fuoco, fuori, contro il muro della baita, e quando ha ricominciato a piovere era già un bel falò vivace. Stando seduto sulla soglia riuscivo a non bagnarmi e ad avere comunque un po’ di luce per leggere, così ho preso il mio Hemingway e il mio vino e ho passato la serata con Nick Adams sul Grande fiume dai due cuori. Il suo torrente si chiamava Black River. Anche la mia montagna, quella che avrei provato a scalare il giorno dopo, aveva un nome nero. Mi è sembrato di buon augurio. La mia grande montagna dai due cuori.
  
Il giorno dopo mi sono alzato alle cinque e mezza, appena ho visto che fuori impallidiva. Non ne potevo più di stare lì a rigirarmi sul pavimento, evitando i cocci di vetro e l’acqua che veniva giù dal tetto e pensando a come il tempo riusciva a restringersi e dilatarsi, un anno intero poteva volare via in un battito di ciglia e una sola notte non finire mai. Ho avvolto il sacco a pelo e rifatto lo zaino, mi sono allacciato gli scarponi e ho lasciato lì il giornale con cui avevo acceso il fuoco: se mai qualcuno l’avesse trovato, sopra c’era una data a testimoniare il mio passaggio. Poi ho salutato la baita magica, mi sono chiuso la porta alle spalle e ho preso un gran respiro di aria pulita. Mi sentivo tutto rotto e ancora più stanco della sera prima, però sapevo che quella sensazione sarebbe svanita camminando. Ho cercato di non pensare alla parola caffè. Ho risalito gli ultimi pascoli, mi sono fermato in riva a un torrentello e mi sono lavato con cura i denti, la faccia, il collo. Adesso ero del tutto sveglio. La mattina stava sorgendo limpida e fredda, con il lago ancora in ombra duecento metri sotto di me e la cima del monte mille metri più in alto, già illuminata dal sole. Il bianco sporco dei vecchi nevai languiva sulla roccia nera, e nei canaloni un bianco nuovo, brillante e quasi d’argento, screziava le pareti, incideva bordi e pieghe come un gessetto sulla lavagna. Ho pensato che in alto potesse aver nevicato, ma non avevo mai visto la neve disegnare linee così nette. Avrei scoperto più tardi che si trattava di ghiaccio: la grandine notturna era scivolata tra le rocce accumulandosi nelle fessure e sulle cenge, e ora fondeva al primo sole del mattino tracciando quelle venature luccicanti. Quanto a me, mi aspettavano almeno due ore di pietraia sconnessa prima di uscire in cresta. Così ho abbassato lo sguardo, ho infilato i pollici nelle bretelle dello zaino e ho ricominciato a salire.

6 commenti:

  1. caro paolo
    Spero vivamente che questi deliziosi racconti parlino presto di barboni,ponti e grattacieli.
    Un abbraccio

    Nunzio

    RispondiElimina
  2. Come si sceglie il posto dove decidi di vivere (se lo decidi, voglio dire se non emigri per lavoro). Non e' vero che decidi in base al fatto che tu ami una citta', o agli affetti, o al lavoro stesso. A volte decidi in base a tutto questo insieme. Solo che a volte vai per tornare, anche un periodo lungo e per tornare; a volte rimani senza biglietto di ritorno. Quando e' che passi dalla sponda all'altra di questo, mi chiedo. Come governi i diversi bisogni impellenti che senti nel tuo grembo, mi chiedo, che ti senti tirare in tanti direzione diverse.

    RispondiElimina
  3. Ti dedico questo western solitario e ubriaco. Ciao. Massimiliano G.

    http://www.youtube.com/watch?v=KrWE_XoHu68

    RispondiElimina
  4. Una volta amavo la montagna, le sue rocce, il vento tagliente: ma adesso non vado più, troppo vicina al cielo.

    RispondiElimina
  5. La prima volta che vedi Rambo o Remigio fatti raccontare la storia del proprietario della baita del tuo racconto; sono sicuro che se l'avessi conosciuto (purtroppo è morto sotto 1 valanga una quindicina d'anni fa),con la tua bravura nello scrivere,avresti potuto raccontare le storie di 1 montanaro " di una volta", di quelli che purtroppo da noi non ce ne sono più.

    RispondiElimina