Nevica. È bella Brooklyn sotto la neve, mi fa sentire bene. Cammino tra gli uomini che spalano i marciapiedi, spargono il sale davanti alla porta di casa. A Williamsburg, sul vecchio molo dove attraccano i traghetti di linea, i gabbiani volteggiano nonostante la tormenta, puntano le interiora delle prede abbandonate dai pescatori. Mi fermo in un negozio di vestiti usati per comprare degli scarponi. Ne trovo un paio di robusti, di cuoio, caldi e resistenti all’acqua, e le mie scarpe dell’estate ormai cadono a pezzi, così le getto in un bidone all’angolo della strada, proseguo con quelle dell’inverno ai piedi.
Fuori dal Jalopy Theatre, il locale dove il mercoledì vado a sentire un po’ di musica, un amico mi ha chiarito un’idea che mi girava in testa da qualche giorno. Anche lui conosce bene la montagna. È cresciuto in Valtellina, ma ora abita a Brooklyn da quasi un anno. Mi ha descritto la sua baita in mezzo ai boschi e la stanza che ha trovato qui, in un’ex caserma dei pompieri. Non è mica quel grande salto che tutti pensano, ha detto. New York è solo un altro tipo di solitudine.
Proprio così, Simone. Il punto non è il paesaggio che hai intorno, ma il modo in cui ci vivi dentro. Il mondo è il tuo specchio: le parti che osservi più spesso sono quelle in cui riesci a rifletterti, le cose che ti colpiscono sono scoperte di te. Probabilmente amo New York per questo: perché, tra le infinite città che contiene, c’è anche quella che mi assomiglia. Io preferisco la mattina presto alla sera tardi. Preferisco i margini di Brooklyn, i quartieri vicino all’acqua, a tutti i possibili centri di Manhattan. Preferisco i marciapiedi deserti alle strade gremite, le vecchie fabbriche in mattoni rossi ai grattacieli. Non è New York a essere così, sono io. Il marciapiede deserto sono io. La fabbrica in mattoni rossi sono io.
Ho letto da qualche parte che l’impressionante aumento della miopia nel mondo occidentale non è dovuto a computer e televisori, ma al fatto che viviamo in appartamenti, uffici e strade di città. Per la maggior parte del tempo, quello che abbiamo bisogno di mettere a fuoco si trova a pochi metri da noi, e il corpo adatta i propri organi di conseguenza. I nostri occhi non sono più abituati a guardare lontano.
Dopo aver letto l’articolo ho pensato al mio amico Rambo, lassù in montagna, e a quando mi diceva: lo vedi il capriolo?
Dove?, chiedevo io.
Là in cima, vicino a quei larici, lo vedi che è uscito a brucare dove c’è l’erba buona?
Ah eccolo, dicevo io, mentendo.
Così, tra me e me, ho fatto una promessa a Rambo per i prossimi due mesi: ogni giorno dedicherò un po’ di tempo ai miei occhi. Osserverò l’orizzonte e mi allenerò a distinguere quello che vedo. La prima volta l’ho fatto dal tetto di casa: mi sono ficcato una birra nella tasca della giacca, ho risalito la scala a pioli che c’è sul pianerottolo, ho spinto la botola con la testa e sono uscito. Ho bevuto la birra al tramonto, osservando le gru del porto di Red Hook e la superficie luccicante della baia, e poi sempre più in là fino alla costa del New Jersey.
Di mattina vado a scuola. Ho messo la sveglia alle sei, per poter scrivere un po’ prima di uscire. A quell’ora è buio, e nell’oscurità che precede l’alba c’è solo un’altra finestra illuminata oltre alla mia. Sta nella casa di fronte, al primo piano. Un uomo con la maglietta gialla e una gran pancia sporgente è in piedi davanti ai fornelli, si cucina la colazione. Uova, bacon, forse i pancake? Io prendo soltanto caffè nero. Dai lineamenti è messicano o portoricano. Anche lui ogni tanto guarda in qua, e vedendo la mia luce magari pensa: chi è arrivato nella casa degli italiani? Ci studiamo a distanza mentre il quartiere dorme. L’uomo con la maglietta gialla sono io.
Di sera bevo birra, Brooklyn Lager in confezione da sei. Quando esco di casa la mattina, porto giù le bottiglie vuote nel bidone del vetro. Quelle del giorno prima non ci sono mai. Questa sparizione del vetro è rimasta un mistero finché, una notte, sono stato svegliato da un tintinnio che arrivava dalla strada. Mi sono affacciato e ho visto un barbone coperto da molti strati di lana, guanti, cappotto, un paio di berretti, che frugava nei bidoni, tirava fuori le bottiglie e le trasferiva nel suo carrello della spesa. Ho visto ad Harlem dove vanno a finire quei vuoti: ci sono macchine simili ai distributori di bibite, ma funzionano all’incontrario. Tu inserisci lattine e bottiglie e loro ti pagano cinque centesimi al pezzo. Lì davanti si formano lunghe file. Così adesso, la mattina, quando porto fuori il mio vetro penso a quell’uomo, al momento in cui lo troverà, al paio di dollari alla settimana che rappresento per lui. Mi sembra come un piccolo segreto tra noi due. L’uomo che fruga nei bidoni sono io.
Altre cose che ho visto. Ho visto una ragazza farsi le trecce in metropolitana, specchiandosi nel finestrino in galleria. Di fronte a me ho visto un uomo così grasso che si era addormentato appoggiando la testa alla sua stessa pancia. Uscendo sulla Trentaquattresima Strada ho visto i giochi di luce che i grattacieli rivolti a est formano su quelli di fronte: sono bagliori lenticolari che si muovono, tracciano disegni sulle facciate, attraversano le finestre frantumandosi in schegge iridescenti. Ho preso molta pioggia una mattina, e più tardi, finita la scuola, un improvviso sole estivo mi ha sorpreso sulla Settima Avenue. Allora mi sono tolto la giacca e ho avuto voglia di camminare, e me sono andato in maniche di camicia fino a Chinatown, cinquanta isolati più a sud. Per tre dollari ho comprato un piatto di ravioli coi gamberi e ho pranzato su una panchina. Oggi che nevica fitto pare impossibile che quel pomeriggio sia esistito. Il cielo era di un blu ripulito dalla pioggia, e io mi sono ritrovato a immaginare come sarebbe stato vedere le montagne giù in fondo, tra i grattacieli, come succede a Milano quando il vento di aprile si porta via i fumi del nostro scontento, e il Monte Rosa compare all’orizzonte. Alzando gli occhi con questa fantasia, ho visto uno stormo di piccioni viaggiatori volteggiare intorno a un tetto dell’East Side. Ho pensato a un qualche Ghost Dog che li addestrava a ritornare a casa. Dicono ci sia un incrocio, a Manhattan, che sta a un livello un po’ più elevato del mare, perciò da lì attraversando la strada riesci a vedere entrambi i fiumi, l’East River da una parte, l’Hudson dall’altra, e quello è il posto in cui sai una volta per tutte e senza più alcuna possibilità di dubbio di essere su un’isola, io però non l’ho ancora trovato.
lunedì 31 ottobre 2011
sabato 8 ottobre 2011
LA CARNE DELL'ORSO
Avrei voluto un giorno di pioggia per andarmene dalla montagna, non questa luminosa estate d’ottobre. Da domani i tetti del mondo per me saranno di nuovo le terrazze, le cisterne corrose dalla ruggine e le nuvole veloci di Brooklyn. Sono fortunato, passo da un posto all’altro del mio cuore. Ma l’ultimo giorno è lo stesso denso di nostalgia, in una mattina che sembra d’agosto: se non fosse per i sentieri deserti, l’erba secca, il filo d’acqua che scorre nei torrenti, i larici in giallo. Solo le marmotte vagano stordite sotto il sole. Dei camosci, ora che la stagione della caccia è cominciata, resta l’ombra che si dilegua, lampi neri percepiti dalla coda dell’occhio, fantasmi di capre. Per una legge fisica che i montanari conoscono bene, in autunno i suoni arrivano più lontano. Così capita di sentire un trattore e vederlo passare qualche chilometro a valle, o il guaito di un bracco che sta inseguendo una lepre nel bosco. Ma in un giorno così non c'è tempo per l'ascolto. Prima di fare le valigie ho tirato su tutto quello che rimaneva nell’orto: l’ultima insalata, un solitario cavolo coraggioso, i porri. Poi ho strappato le radici, rastrellato la terra, sparso la cenere del camino. Non so se sia granché come concime, ma mi è sembrato giusto farlo: è stato come prendere il larice che era caduto in giugno sotto la neve, quello che mi ha dato legna per tutta l’estate, e rimetterlo a posto. Ho coperto la pianta di salvia con della paglia secca. Ho riportato in casa la ciotola dei cani.
Dei due amici che ho quassù, uno è arrivato e mi ha detto: non sono molto pratico con gli addii. Nemmeno io, gli ho risposto. Allora ciao. Si è allontanato seduto sulla pala del trattore, con suo figlio che guidava e il cane che gli mordeva le ruote anteriori, come fa sempre, abbaiando e mettendosi di traverso sulla strada, come a dire fermati, dove vai? L’altro amico mi ha cacciato di casa, quando sono passato a salutarlo, e poi mi ha scritto per scusarsi, perché era triste e non è stato capace di abbracciarmi. Capisco bene anche lui. Alla fine mi sono lavato per l’ultima volta alla fontana: le mani, la faccia, il collo. Ho lasciato i bastoni sul balcone, perché è lì che devono stare, e poi ho chiuso la porta e me ne sono andato.
Ho letto tanti libri di montagna in questa lunga stagione. Per motivi che non sto qui a spiegare, il racconto che me la ricorderà sempre è Ferro di Primo Levi.
La facile cresta doveva essere facile, anzi elementare, d’estate, ma noi la trovammo in condizioni scomode. La roccia era bagnata sul versante al sole, e coperta di vetrato nero su quello in ombra; fra uno spuntone e l’altro c’erano sacche di neve fradicia dove si affondava fino alla cintura. Arrivammo in cima alle cinque, io tirando l’ala da far pena, Sandro in preda a un’ilarità sinistra che io trovavo irritante.
“E per scendere?”
“Per scendere vedremo”, rispose; e aggiunse misteriosamente: “Il peggio che ci possa capitare è di assaggiare la carne dell’orso”. Bene, la gustammo, la carne dell'orso, nel corso di quella notte che trovammo lunga. Scendemmo in due ore, malamente aiutati dalla corda, che era gelata: era diventato un maligno groviglio rigido che si agganciava a tutti gli spuntoni, e suonava sulla roccia come un cavo da teleferica. Alle sette eravamo in riva a un laghetto ghiacciato, ed era buio. Mangiammo il poco che ci avanzava, costruimmo un futile muretto a secco dalla parte del vento e ci mettemmo a dormire per terra, serrati l’uno contro l’altro. Era come se anche il tempo si fosse congelato; ci alzavamo ogni tanto in piedi per riattivare la circolazione, ed era sempre la stessa ora; il vento soffiava sempre, c’era sempre uno spettro di luna, sempre allo stesso punto del cielo, e davanti alla luna una cavalcata fantastica di nuvole stracciate, sempre uguale.
Alla prima luce funerea ci levammo con le membra intormentite e gli occhi spiritati per la veglia, la fame e la durezza del giaciglio. Ma tornammo a valle con i nostri mezzi, e al locandiere, che ci chiedeva ridacchiando come ce la eravamo passata, e intanto sogguardava i nostri visi stralunati, rispondemmo sfrontatamente che avevamo fatto un’ottima gita, pagammo il conto e ce ne andammo con dignità. Era questa, la carne dell’orso: e ora che sono passati molti anni, rimpiango di averne mangiata poca, poiché, di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino.
Forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino. Me ne vado con quel sapore in bocca. Spero di conservarlo a lungo. E ora Brooklyn.
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