Ora che sto qui a levigarli e lucidarli, questi dieci
racconti, mentre dovrei solo liberarmene e fare altro, mi sembra di sfogliare
non le pagine di un libro futuro, ma un vecchio album di fotografie.
Il racconto dei pirati fu il primo, nell’inverno del 2008, quando
passavo tutti i giorni alla Scighera e leggevo solo libri sulla filibusta. L’idea
sui branchi di maschi mi ricordo da dove viene: ne parlavo spesso con Remigio,
di maschi e di lupi, sul prato di Fontane. E la scena in cui i due amici si
separano, alla fermata di Smith Street sulla linea F, l’ho scritta proprio a
Brooklyn nell’aprile del 2010. Sono uscito di casa e sono sceso in metropolitana
con il mio quaderno, mi sono seduto su una panchina, ho immaginato la scena e l’ho
scritta. Quaderni come quello mi hanno accompagnato ovunque in questi anni. Li
ha comprati mio padre in Malesia e mi pare giusto che uno dei racconti
cominci proprio così: con mio padre a Singapore che contempla l’Oceano Indiano.
Sono quaderni di dimensioni A4, con la copertina di cartone e le pagine numerate,
quattrocento ciascuno. Ne ho riempiti cinque con le storie di Sofia. Potrei
anche sfogliarli come pagine di diario: qua e là c’è il disegno di un larice, l’indirizzo
di un pub newyorkese, il nome e il numero di telefono di qualcuno che non so
più chi è, macchie di caffè e di vino, brani di libri che stavo leggendo e mi
andava di ricopiare, ma più che altro c’è quello, parole su parole, un mucchio
di bucce d’uva fermentata e un laborioso processo di distillazione. Duemila
pagine che diventeranno duecento. A quanto pare, da cento chili di vinaccia si
estraggono sei litri di grappa: dunque il mio alambicco non è stato poi così
spietato, e il mio nettare più che a torcibudella assomiglierà a un liquore
per signorine.
Non ho un racconto preferito, oppure il preferito cambia a
seconda dell’umore. Nei giorni di bonaccia mi piacciono quelli brevi, secchi e
puliti, ma quando mi sento montare il mare mosso quei racconti mi sembrano solo
dei giochini, e preferisco quelli lunghi, sofferti, imperfetti.
Tutti sono nati da un modello, anche se poi magari scrivendo hanno preso la
loro strada, e del modello non conservano più molto. Ma se ci ripenso ora posso
risalire a ciascuna fonte: il primo viene da Hemingway, Un racconto molto breve; il secondo da Ortiche di Alice Munro; il terzo da Per Esmé di Salinger; Gente del Wyoming di Annie Proulx ne ha ispirati ben due. È importante
per me quest’idea, che scrivere sia come dialogare coi miei maestri vivi o
morti, provare a raccogliere il loro testimone. Nel mio libro c’è Carver nell’uomo che chiama l'amante dalla cabina del telefono, nella
donna che mette i mobili fuori di casa; c’è Salinger in ogni dialogo tra un
adulto e un bambino; ci sono Cheever
e Yates in ogni piscina gonfiabile, ogni villetta a schiera. C’è perfino Il
velo nero di Hawthorne, e i Maschietti
di Moody che non mancano mai, Esther
Stories di Orner che è il mio sussidiario, e
come ho fatto a dimenticare Le vergini suicide? Sono lì nella scena in cui il ragazzino entra nella
stanza di Sofia, molti anni dopo che lei se n’è andata. Per dire di come le
fonti si mescolano, a lui ho dato il nome del gestore di un rifugio che ho
conosciuto in Valsesia. Era un nome troppo bello per non usarlo in un racconto.
Anche il cane di Sofia è ispirato a quello dei miei vicini d’alpeggio, il
vecchio cane pastore sempre in cerca di biscotti, e l’ho chiamato Mozzo come
lui.
Chissà se qualcuno troverà tutti i libri nascosti nel mio
libro, se le persone sapranno di essere proprio loro, se chi è stato con me in
un luogo lo riconoscerà. In un racconto c’è Nadia nell’incubatrice, quando è nata e hanno sgomberato il reparto per colpa della sua salmonella, e mia madre che le parla
seduta lì accanto, appena arrivata dal Veneto dopo la scuola da infermiere. C’è
il laghetto di Gressoney Saint-Jean con l’isola e il gazebo, solo che nel mio
libro sta in Brianza, dove rischiammo di andare a vivere verso la metà degli
anni Ottanta (sia benedetto chi quella volta ha cambiato idea). C’è Marina che
fa la lotta armata e Dino che predica l’anarchia alle giovani menti, meglio se con un bicchiere di rosso in mano. C’è Sara sdraiata
sul pavimento, che si fa scrocchiare le vertebre cervicali. Gabbole che mi
accusa di ipocrisia e moralismo, e quando non sa più cosa dire chiede: e quindi? C’è Viola e i nostri
primi mesi a Roma, le coinquiline di Laura a Torino, un intero racconto dedicato alla
Bovisa e un altro a Red Hook, una cena con Nadia in un ristorante di Napoli, un
viaggio con Giorgio a Francoforte, vaghi ricordi d’infanzia sul lago di Lecco e
l’immagine nitidissima di una porta, chiusa a chiave e senza maniglia: era di
fronte alla mia camera in montagna, di notte mi dava gli incubi. In vent’anni
non ho mai saputo che cosa ci fosse lì dentro, però adesso che quella porta sta
in un racconto è come se nella mia vita avesse preso finalmente un senso, e di incubi
non me ne darà più.
A volte mi sembra che scrivere storie non sia altro che questo: mettere un po’ d’ordine al caos della memoria, proprio come facciamo luce su un ricordo oscuro solo raccontandolo a qualcun altro, e più lo raccontiamo più lo mettiamo a posto, lo rendiamo logico e comprensibile, gli costruiamo una bella scatola dove poterlo conservare, e poco importa se quella cosa che otteniamo alla fine non assomiglia più molto alla realtà dei fatti. Tanto la realtà dei fatti che cos'è? In ogni tribunale sanno bene che un testimone vale molto meno di una prova. La memoria è un racconto, non un documento, e qualsiasi racconto contiene un mucchio di bugie. In questo senso la narrativa è più onesta dell’autobiografia, dichiara apertamente la propria natura: non pretende di stabilire la verità senza distorsioni, anzi si arrende all’idea che la memoria è una distorsione del reale. Bum. Ecco qui il povero scrittore di racconti, partito dall’alambicco per la grappa e giunto a interrogarsi sulle grandi domande universali. Tra un po’ mi chiederò: esiste un Narratore Onnisciente? E le stelle sono solo punture di spillo nel velo che separa noi da Lui?
A volte mi sembra che scrivere storie non sia altro che questo: mettere un po’ d’ordine al caos della memoria, proprio come facciamo luce su un ricordo oscuro solo raccontandolo a qualcun altro, e più lo raccontiamo più lo mettiamo a posto, lo rendiamo logico e comprensibile, gli costruiamo una bella scatola dove poterlo conservare, e poco importa se quella cosa che otteniamo alla fine non assomiglia più molto alla realtà dei fatti. Tanto la realtà dei fatti che cos'è? In ogni tribunale sanno bene che un testimone vale molto meno di una prova. La memoria è un racconto, non un documento, e qualsiasi racconto contiene un mucchio di bugie. In questo senso la narrativa è più onesta dell’autobiografia, dichiara apertamente la propria natura: non pretende di stabilire la verità senza distorsioni, anzi si arrende all’idea che la memoria è una distorsione del reale. Bum. Ecco qui il povero scrittore di racconti, partito dall’alambicco per la grappa e giunto a interrogarsi sulle grandi domande universali. Tra un po’ mi chiederò: esiste un Narratore Onnisciente? E le stelle sono solo punture di spillo nel velo che separa noi da Lui?
Niente, dicevo, ora dovrei solo liberarmi di tutta questa
roba, consegnarla alle sante donne di minimum fax perché ne facciano un oggetto
che sia bello, colorato e profumato d’inchiostro, così un giorno non troppo lontano
ce l’avrò tra le mani e potrò guardarlo con molta nostalgia e un po’ di
disgusto. Nostalgia per quando lo stavo vivendo e pure per quando lo stavo
scrivendo. Disgusto perché non sarà mai come volevo che fosse. Lo metterò sullo
scaffale insieme agli altri tre e lo scruterò ogni tanto con un sopracciglio
alzato. Per tenere lontano quel momento, rileggo un racconto al giorno e trovo
sempre qualcosa su cui lavorare: ripetizioni da correggere, dati storici e
geografici da controllare, l’episodio romano che continua a non convincermi del
tutto e il finale di quell’altro, su cui proprio non riesco a decidere che cosa
sia meglio. Il mogano era liscio e lucido, come se fosse stato appena
passato con la cera, oppure Il
mogano era liscio e lucido, come se qualcuno l’avesse appena passato con la
cera? Ogni volta che lo rileggo cambio
versione, e dopo qualche giorno la rimetto com’era prima. Il famoso decalogo
del Kansas City Star, dove Hemingway si formò come cronista, forniva regole ben
precise: la forma affermativa del verbo è da preferire a quella negativa, la
forma attiva a quella passiva. Però loro parlavano di furti e omicidi.
Dichiarazioni politiche, incontri di pugilato. Bisognava essere chiari, non lasciare niente di
ambiguo, dare al lettore tutte le risposte di cui aveva bisogno. Io al lettore non ho altro da dare che le mie domande. Come diavolo si descrive un mobile lucidato
dai fantasmi?
Ho capito che dovro' mettermi l'anima in pace ed aspettare che i fantasmi del mogano ti lascino in pace.
RispondiEliminaNon vedo l'ora di leggerli!
Un abbraccio e a presto
Nunzio
Piacere di rileggerti Paolo. Ben tornato. Un caro saluto.
RispondiEliminaMarco
Mi è sempre sembrato più ovvio che i fantasmi sulle cose lasciassero una patina opaca: niente legno fresco di cera... ma in realtà la patina, a pensarci bene, la lascia il tempo, e non gli spiriti. Buon lavoro, spero di leggerne presto i frutti.
RispondiEliminasono impaziente di leggerti.
RispondiElimina(a settembre il libro nuovo?)
gabriele
"Come diavolo si descrive un mobile lucidato dai fantasmi?"
RispondiEliminaDopo profonda meditazione dopo aver scelto tra le due frasi: "Il mogano era liscio e lucido, come se fosse stato appena passato con la cera", credo che un mobile lucidato dai fantasmi possa presentarsi con un'aurea quasi immateriale. Essere così lucido e liscio da confondersi con i contorni.
Il tutto, umilmente, aspettando i tuoi racconti, i fantasmi e tutti i libri nascosti nel tuo.