(Quest’anno ricorre il centenario della nascita di John
Cheever, e l’editore Feltrinelli lo celebra ripubblicando tutta la sua opera. O
pubblicandola per la prima volta, come nel caso di molti dei 61 racconti usciti
in questi giorni. Per l’occasione sono stato invitato a tenere una lezione su
Cheever alla Scuola Holden di Torino, che ringrazio di cuore per l’ospitalità.
Eccone qui un estratto.)
Che cos’è una casa? È una scatola che divide il mondo in due
spazi: un dentro e un fuori. La sua sola esistenza genera un conflitto, materia
prima ideale per costruire una storia. Per cominciare a immaginarla potremmo chiederci:
che cosa sta dentro la casa e che cosa rimane fuori? In quale rapporto sono
questi due spazi, e come comunicano tra loro? Esistono porte e finestre per
passare da uno all’altro? Quanto sono permeabili i muri? Quali tracce conserva una
casa di chi ci vive o ci ha vissuto, che notizie dà dei suoi abitanti?
Come scrittore credo di esserne ossessionato. Solo dopo aver finito i racconti della mia nuova raccolta mi sono accorto che parlano tutti di case. E di case parlano i miei racconti preferiti. Ne rileggo spesso uno di Rigoni Stern, Le mie quattro case, in cui Mario ricostruiva la propria storia attraverso le case abitate. Una memoria legata ai luoghi che tutti possediamo, e che compone una biografia possibile di ognuno di noi, ma il bello del racconto è che una di quelle case era andata distrutta prima che lui nascesse, e un’altra non era mai esistita se non nella sua testa. Era la baita che Mario aveva progettato mentre era prigioniero nel lager, un sogno di casa che gli aveva occupato la mente e salvato la vita. Sarebbe stata appartata, lontana dagli uomini e vicina al bosco, essenziale, calda, adatta a curarsi dalle ferite della guerra e a far pace col mondo.
Come scrittore credo di esserne ossessionato. Solo dopo aver finito i racconti della mia nuova raccolta mi sono accorto che parlano tutti di case. E di case parlano i miei racconti preferiti. Ne rileggo spesso uno di Rigoni Stern, Le mie quattro case, in cui Mario ricostruiva la propria storia attraverso le case abitate. Una memoria legata ai luoghi che tutti possediamo, e che compone una biografia possibile di ognuno di noi, ma il bello del racconto è che una di quelle case era andata distrutta prima che lui nascesse, e un’altra non era mai esistita se non nella sua testa. Era la baita che Mario aveva progettato mentre era prigioniero nel lager, un sogno di casa che gli aveva occupato la mente e salvato la vita. Sarebbe stata appartata, lontana dagli uomini e vicina al bosco, essenziale, calda, adatta a curarsi dalle ferite della guerra e a far pace col mondo.
Quel rifugio ideale di Rigoni Stern me ne ricorda un altro a cui sono affezionato, la Casa di Chef messa in scena da Carver nel racconto omonimo. Il
protagonista, Wes, era uno dei suoi soliti ubriaconi. Aveva perso il lavoro ed era
stato lasciato dalla moglie, ma adesso era sobrio da qualche tempo e un tizio
conosciuto agli alcolisti anonimi, questo Chef, gli aveva prestato una casa per
l’estate. Era piccola e vicina all’oceano. In quella casa a Wes era sembrato di
poter ricominciare, tanto che dopo un po’ aveva telefonato alla moglie,
chiedendole perdono e invitandola a passare l’estate lì con lui. Le case nuove hanno questo di buono, ci illudono di poter rinnovare anche la nostra vita.
Così, come quegli studiosi dell’Ottocento che smontavano le
favole cercandone i meccanismi ricorrenti, ho inaugurato uno studio che sta a
metà tra architettura e narrativa: quante cose si possono fare con una casa in
una storia? Ci ho riflettuto per un po' di tempo e ne ho trovate alcune. Ho provato ad abbinare a
ogni situazione una funzione narrativa, ed ecco qui qualche proposta per un immaginario manuale (accetto suggerimenti per ampliarlo):
- Costruire una casa (fondare
una dinastia)
- Comprare casa (diventare
adulti)
- Cambiare casa (cambiare
vita)
- Scappare di casa (conquistare
la libertà, partire per l’avventura)
- Essere cacciati di casa (subire
uno sradicamento)
- Avere la casa distrutta, bruciata, allagata (perdere tutto)
- Distruggere, bruciare, allagare casa propria (suicidarsi)
- Avere i ladri in casa (subire
una violazione)
- Avere un inquilino in casa (condividere la propria intimità con un estraneo)
- Abitare in casa d’altri (introdursi
nell’intimità altrui)
- Avere la casa pericolante (perdere le certezze)
- Avere la casa infestata da topi, scarafaggi, tarli (sentirsi minacciati)
- Avere la casa infestata dai fantasmi (scoprire segreti del passato)
- Chiudersi in casa (essere
depressi)
- Sostare davanti alla finestra di casa (aspettare un cambiamento)
- Uno sconosciuto bussa alla porta di casa (novità in arrivo)
- Un poliziotto bussa alla porta di casa (guai in arrivo)
- Una casa in costruzione (la
nascita)
- Una casa trascurata (la
malattia, la solitudine)
- Una casa illuminata nella notte (la felicità domestica)
- Una casa disabitata (la
morte)
A Cheever piacevano particolarmente queste due: Introdursi
in casa d’altri e Subire un’intrusione.
A partire dal suo racconto più celebre, Una
radio straordinaria, in cui una giovane
sposa, Irene, una ragazza sulla cui fronte “nulla ancora era stato scritto”,
riceve in regalo dal marito una radio difettosa, in grado di captare le
conversazioni nelle case dei vicini. Scoprirà che coppie apparentemente felici
nascondono segreti di ogni tipo, ne sarà sconvolta e perderà ogni illusione
sulle gioie del matrimonio, compreso il suo. Nel racconto Stagione di
divorzio succede un po’ il contrario: una
moglie di mezz’età, Ethel, riceve l’inaspettata dichiarazione d’amore di un
conoscente a sua volta sposato, il dottor Trencher. Questo dottore è così
ossessionato da Ethel da abbandonare il tetto coniugale per appostarsi sotto
casa di lei e seguirla ovunque, rinnovando le sue proposte di fuga romantica. Il
bello del racconto è la reazione della donna, che dopo un grande turbamento si
accorge di non essere mai stata così desiderata in vita sua, ha la tentazione
di scappare con il dottore, ma poi sceglie di restare con il marito e allo
stesso tempo si condanna all’infelicità. Le case di Cheever non
contengono un io, ma quel noi
che lo scrittore ha usato spesso come voce
narrante: ogni coppia ha una vita apparente e una vita segreta, e questi sono
il fuori e il dentro separati dalle mura domestiche. A volte il dentro può essere origliato da una radio speciale, spiato
attraverso una finestra, confessato al bancone di un bar grazie a qualche
bicchiere, rivelato dall’incuria del giardino o dalla cronica assenza di
ospiti, o semplicemente raccontato dagli oggetti che troviamo nelle case degli
altri, se siamo abbastanza bravi a capire la loro lingua. Di questo parla
quello che è probabilmente il mio racconto preferito di Cheever. Ne ricopio qui
l’inizio, sperando che per qualcuno sia il benvenuto nel mondo di un grande
scrittore.
LE CASE AL MARE
Ogni anno affittiamo una casa in riva al mare e all’inizio
dell’estate ci trasferiamo lì con i bambini, il cane, il gatto e la cuoca. Arriviamo
in quel luogo che non conosciamo poco prima che faccia buio. Il viaggio verso
il mare ha un eccitamento cerimonioso tutto suo - sono tanti ormai gli anni che
lo viviamo - con quella consapevolezza di chi siamo, ciò che nei sogni abbiamo
sempre saputo di essere - girovaghi e migranti - viaggiatori, insomma, con la
tipica sensibilità del viaggiatore. Il vicino ti dà un mazzo di chiavi mezzo
arrugginite dalla salsedine, tu apri la porta ed entri in un corridoio buio o
pieno di luce, pronto a iniziare la vacanza: un mese che si preannuncia senza
preoccupazioni. Ma altrettanto forte, se non addirittura più forte di questa
piacevole sensazione di ritorno alle origini, è la sensazione di essere finito
nel bel mezzo della vita di qualcun altro. Io tratto con gli agenti immobiliari
e non mi capita mai di conoscere i proprietari delle case che prendiamo in
affitto, ma la loro capacità di lasciarsi alle spalle il senso della loro
presenza fisica ed emotiva è straordinaria. La storia della nostra vita non è
di certo scritta nell’aria o nell’acqua, eppure sembra che possa venir
raccontata dai battiscopa graffiati, dagli odori, dal gusto nello scegliere
quadri e mobili, e il clima che respiriamo in ogni casa è caratteristico quanto
gli improvvisi stravolgimenti del tempo in spiaggia. A volte in quel lungo
corridoio si prova una sensazione di benevolenza, una purezza e limpidezza di
sentimenti verso cui non si può restare insensibili. Qualcuno lì ha passato
momenti veramente felici, e si ha la sensazione di aver preso in affitto pure
la sua felicità insieme alla sua casa. A volte l’atmosfera del posto sembra
misteriosa, e rimane tale fino ad agosto, quando ce ne andiamo. Chi è, viene da
chiedersi, la donna nel ritratto al piano di sopra? Di chi è l’opera completa
di Virginia Woolf? Chi ha nascosto la copia di Fanny Hill nella vetrina, chi suonava lo zither, chi dormiva
nella culla? E chi era la donna che ha dipinto con lo smalto rosso le unghie
delle zampe di leone della vasca da bagno? Com’era la sua vita in quel momento?
Mentre il cane e i bambini corrono giù in spiaggia, noi portiamo dentro le nostre cose: ci sembra di vagare attraverso le dense storie di questi estranei. Calato il buio ci prepariamo un drink, mandiamo i bambini a dormire e, dopo aver preso tutte le misure per esorcizzare la presenza dei proprietari e assicurarci il pieno possesso del posto, facciamo l’amore in una stanza estranea che odora del sapone di qualcun altro. Ma nel bel mezzo della notte la porta del terrazzo si apre e sbatte, sebbene sembra che non ci sia vento, e mia moglie, mezzo addormentata, esclama: “Ma perché sono tornati? Perché sono tornati? Che cos’hanno dimenticato?”
Mentre il cane e i bambini corrono giù in spiaggia, noi portiamo dentro le nostre cose: ci sembra di vagare attraverso le dense storie di questi estranei. Calato il buio ci prepariamo un drink, mandiamo i bambini a dormire e, dopo aver preso tutte le misure per esorcizzare la presenza dei proprietari e assicurarci il pieno possesso del posto, facciamo l’amore in una stanza estranea che odora del sapone di qualcun altro. Ma nel bel mezzo della notte la porta del terrazzo si apre e sbatte, sebbene sembra che non ci sia vento, e mia moglie, mezzo addormentata, esclama: “Ma perché sono tornati? Perché sono tornati? Che cos’hanno dimenticato?”
John Cheever, I racconti
(Le case al mare è tradotto da Leonardo Giovanni Luccone)
Feltrinelli 2012