Tempi
duri per noi lettori di racconti, e pure per noi amanti della narrativa
americana. Buttando giù la classifica delle migliori raccolte dell’anno
trascorso, mi sono accorto che sono quasi tutti libri vecchi, usciti in Italia
con molto ritardo. Non che l’età dei libri abbia valore di per sé, ma ti
ritrovi a chiederti che cosa stiano scrivendo i tuoi coetanei dall’altra parte
del mondo, se nelle storie che leggi il mondo è quello di trenta o quaranta o
cinquant’anni fa, e i loro autori sono molto vecchi o molto morti. Forse è la
forma racconto che da quelle parti è passata di moda. O forse i bambini
bruciati
che scoprivamo negli anni Novanta hanno messo su pancia, ottenuto una cattedra
di prestigio e comprato una casetta al mare, e nessuno è ancora arrivato a
raccoglierne il testimone. Dov’è la frontiera? Chi saprà scrivere una storia di
dieci pagine che mi faccia accelerare il cuore? Io sento un gran bisogno, come
lettore, di montare in macchina e puntare verso ovest. Spero che qualcuno mi ci
porti presto.
Comunque, alla fine ho fatto due classifiche. La prima è quella delle vecchie glorie:
1) John Cheever, I racconti (Feltrinelli)
Non li contiene tutti (ne scrisse centinaia) ma è un best of che in Italia aspettavamo dal 1978, quando questa raccolta uscì in America alla fine di una lunga carriera, e pochi anni prima che Cheever morisse. Io ne possiedo anche un’edizione ridotta, uscita per Garzanti nel 1987 (Addio fratello mio, regalo di mia sorella!), più tutti i libricini in cui Fandango l’ha spezzettata in seguito, facendone scempio e lasciando pure il lavoro a metà. Qui la cosa notevole è la scoperta dei racconti tardivi, molto diversi da quelli degli anni Cinquanta e Sessanta per cui Cheever è famoso: non più casalinghe e pendolari e villette nei sobborghi, ma vecchi scrittori viziosi e un universo di personaggi eccentrici, descritti con uno stile che vira decisamente al postmoderno. Infinita riconoscenza ad Adelaide Cioni, che deve aver passato su Cheever un bel pezzo di vita, traducendo una trentina di questi racconti e i monumentali diari (Una specie di solitudine, sempre Feltrinelli).
2) Andre Dubus, Il padre d’inverno (Mattioli 1885)
È una raccolta del 1980, con cui prosegue la pubblicazione dell’opera di Dubus, fino a pochi anni fa misteriosamente inedito in Italia. Bisogna ringraziare Nicola Manuppelli che l’ha riscoperto e tradotto molto bene. I miei preferiti tra questi racconti sono quelli sulla fine del matrimonio e sul rapporto tra genitori e figli; in particolare, quello che dà il titolo al libro è un capolavoro. A me sembra di aver capito una cosa sui grandi scrittori di racconti: non ha importanza che le loro raccolte abbiano un tema, una cornice geografica, un filo conduttore, perché hanno già lo sguardo a tenerle insieme. Quando leggi Carver o Yates o appunto Dubus hai la sensazione di entrare nel loro mondo, e non importa quanto siano diversi i personaggi e le storie. Quello che dà coerenza al libro è il modo in cui lo scrittore guarda dentro l’animo dei personaggi, e la sua sensibilità, insieme alla sua lingua, costituiscono il vero paesaggio delle sue storie, ovvero lo spazio in cui le cose accadono. Nel caso di Dubus questo paesaggio è la solitudine di chi ha perso qualcosa, la persecuzione del senso di colpa, un continuo dubbio morale; e i suoi racconti, più che a trame, assomigliano a meditazioni. Io che organizzo la libreria secondo le mie parentele emotive l’ho messo accanto a Charles D’Ambrosio e Richard Ford.
3) Alice Munro, Chi ti credi di essere? (Einaudi)
Un altro libro del 1978, che era già uscito per E/O negli anni Novanta (io però non ce l’avevo, nelle librerie dell’usato è introvabile). Un romanzo di racconti su Rose, che nasce e cresce in un paesino di campagna dell’Ontario, poi si sposa e va a vivere a Vancouver, comincia a fare l’insegnante, si separa, cambia uomini e case. Il rapporto con le radici (che nei racconti di Alice Munro sono i vecchi, il paesaggio di campagna, le tante matrigne, la volgarità del loro modo di pensare e di parlare, la vergogna di appartenere a quel mondo) e il bisogno di andarsene da lì a rifarsi una vita (scoprendo i libri, la città, gli intellettuali, le idee di moda negli anni Sessanta, la libertà sessuale, e infine la solitudine e il disincanto). In Rose c’è sempre un senso di impostura (infatti fa l’attrice): il sospetto di essere solo una contadina ripulita, la paura di venire smascherata da un momento all’altro, l’inadeguatezza perenne. Moglie inadeguata, madre inadeguata, intellettuale e artista inadeguata. Non solo temi, ma perfino luoghi, personaggi e trame che noi lettori di Alice Munro conosciamo bene, perché ci ha lavorato sopra per una quindicina di libri. Leggerla è sempre un piacere, però chi come me ama la scrittura chirurgica che ha raggiunto verso i settant’anni (quella di Nemico amico amante) qui riconosce le ruvidezze dell’apprendistato, il lavoro di una narratrice che sta ancora affilando le lame. La lingua suona più elaborata e letteraria, lo sguardo è meno tagliente che nei racconti migliori; e di quell’uso spericolato del montaggio, quella manipolazione del tempo-memoria di cui diventerà maestra, in Chi ti credi di essere? quasi non c’è traccia.
E ora le novità:
Comunque, alla fine ho fatto due classifiche. La prima è quella delle vecchie glorie:
1) John Cheever, I racconti (Feltrinelli)
Non li contiene tutti (ne scrisse centinaia) ma è un best of che in Italia aspettavamo dal 1978, quando questa raccolta uscì in America alla fine di una lunga carriera, e pochi anni prima che Cheever morisse. Io ne possiedo anche un’edizione ridotta, uscita per Garzanti nel 1987 (Addio fratello mio, regalo di mia sorella!), più tutti i libricini in cui Fandango l’ha spezzettata in seguito, facendone scempio e lasciando pure il lavoro a metà. Qui la cosa notevole è la scoperta dei racconti tardivi, molto diversi da quelli degli anni Cinquanta e Sessanta per cui Cheever è famoso: non più casalinghe e pendolari e villette nei sobborghi, ma vecchi scrittori viziosi e un universo di personaggi eccentrici, descritti con uno stile che vira decisamente al postmoderno. Infinita riconoscenza ad Adelaide Cioni, che deve aver passato su Cheever un bel pezzo di vita, traducendo una trentina di questi racconti e i monumentali diari (Una specie di solitudine, sempre Feltrinelli).
2) Andre Dubus, Il padre d’inverno (Mattioli 1885)
È una raccolta del 1980, con cui prosegue la pubblicazione dell’opera di Dubus, fino a pochi anni fa misteriosamente inedito in Italia. Bisogna ringraziare Nicola Manuppelli che l’ha riscoperto e tradotto molto bene. I miei preferiti tra questi racconti sono quelli sulla fine del matrimonio e sul rapporto tra genitori e figli; in particolare, quello che dà il titolo al libro è un capolavoro. A me sembra di aver capito una cosa sui grandi scrittori di racconti: non ha importanza che le loro raccolte abbiano un tema, una cornice geografica, un filo conduttore, perché hanno già lo sguardo a tenerle insieme. Quando leggi Carver o Yates o appunto Dubus hai la sensazione di entrare nel loro mondo, e non importa quanto siano diversi i personaggi e le storie. Quello che dà coerenza al libro è il modo in cui lo scrittore guarda dentro l’animo dei personaggi, e la sua sensibilità, insieme alla sua lingua, costituiscono il vero paesaggio delle sue storie, ovvero lo spazio in cui le cose accadono. Nel caso di Dubus questo paesaggio è la solitudine di chi ha perso qualcosa, la persecuzione del senso di colpa, un continuo dubbio morale; e i suoi racconti, più che a trame, assomigliano a meditazioni. Io che organizzo la libreria secondo le mie parentele emotive l’ho messo accanto a Charles D’Ambrosio e Richard Ford.
3) Alice Munro, Chi ti credi di essere? (Einaudi)
Un altro libro del 1978, che era già uscito per E/O negli anni Novanta (io però non ce l’avevo, nelle librerie dell’usato è introvabile). Un romanzo di racconti su Rose, che nasce e cresce in un paesino di campagna dell’Ontario, poi si sposa e va a vivere a Vancouver, comincia a fare l’insegnante, si separa, cambia uomini e case. Il rapporto con le radici (che nei racconti di Alice Munro sono i vecchi, il paesaggio di campagna, le tante matrigne, la volgarità del loro modo di pensare e di parlare, la vergogna di appartenere a quel mondo) e il bisogno di andarsene da lì a rifarsi una vita (scoprendo i libri, la città, gli intellettuali, le idee di moda negli anni Sessanta, la libertà sessuale, e infine la solitudine e il disincanto). In Rose c’è sempre un senso di impostura (infatti fa l’attrice): il sospetto di essere solo una contadina ripulita, la paura di venire smascherata da un momento all’altro, l’inadeguatezza perenne. Moglie inadeguata, madre inadeguata, intellettuale e artista inadeguata. Non solo temi, ma perfino luoghi, personaggi e trame che noi lettori di Alice Munro conosciamo bene, perché ci ha lavorato sopra per una quindicina di libri. Leggerla è sempre un piacere, però chi come me ama la scrittura chirurgica che ha raggiunto verso i settant’anni (quella di Nemico amico amante) qui riconosce le ruvidezze dell’apprendistato, il lavoro di una narratrice che sta ancora affilando le lame. La lingua suona più elaborata e letteraria, lo sguardo è meno tagliente che nei racconti migliori; e di quell’uso spericolato del montaggio, quella manipolazione del tempo-memoria di cui diventerà maestra, in Chi ti credi di essere? quasi non c’è traccia.
E ora le novità:
1)
Deborah Willis, Svanire (Del Vecchio editore)
La
più bella raccolta di racconti che ho letto nel 2012. Deborah Willis è
canadese, è nata nel 1982 e ha scritto quattordici storie che parlano di persone
che scompaiono e persone che rimangono, anzi soprattutto di queste. C’è la
figlia di uno scrittore scappato di casa dopo una lunga crisi creativa, e ci
sono gli uomini che nella vita non farà che abbandonare. C’è una coppia di
ragazzi giovani, innamorati, stupidi, che sono appena andati a vivere insieme,
due idioti innamorati a cui nessuno dovrebbe mai affidare un bambino, e invece
una vicina di casa glielo affida e loro pensano bene di portarlo a fare un giro
in metropolitana. C’è un medico che ha perso la moglie e non riesce a trovare
consolazione se non al tavolo del black-jack: dove si innamora delle mani della
croupier, una ex prestigiatrice, e alla fine le chiede di fare sparire anche
lui. E poi ci sono i modelli di questi racconti - A.M. Homes e Lorrie Moore su
tutti - quelli che riconosci, o ti sembra di riconoscere, quando uno scrittore
della tua età ha amato i tuoi stessi libri. Deborah Willis l’ho messa accanto a
loro due. Sono contento che l’abbia pubblicata un bell’editore come Del
Vecchio.
2)
Mary Gaitskill, Oggi sono tua (Einaudi)
Lei
è una di quelle scrittrici che aspettavo da tempo, mai arrivata da noi perché
ha scritto soprattutto racconti, benché siano usciti su riviste come il New
Yorker e abbiano vinto numerosi premi. Ora nello stesso anno Einaudi ha
pubblicato questa antologia (che contiene storie tratte da tre raccolte
diverse, del 1988, 1997 e 2009) e Nutrimenti un romanzo che non ho ancora letto
(Veronica, del
2005). I racconti mi sono piaciuti molto. Parlano principalmente di sesso e
delle sue derive, e in particolare di sadomasochismo. Dopo un po’, leggendoli,
ti viene da pensare che in realtà la dominazione e la sottomissione siano il
gioco preferito di ogni coppia, e anche se non si frustano e sculacciano a
vicenda, un uomo e una donna che si mettono insieme siano due che non vedono l’ora
di farsi male.
3)
Nathan Englander, Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank (Einaudi)
Dopo
la sua acclamatissima raccolta d’esordio (Per alleviare insopportabili
impulsi, del
1999), Nathan Englander aveva ceduto alla solita tentazione e speso otto lunghi
anni per scrivere un romanzo che non è andato per niente bene (Il ministero
dei casi speciali,
2007). Io lo conobbi nel 2004 per i documentari di Scrivere/New York. Parlammo a lungo di
letteratura ebraica e ristoranti etnici di New York (Nathan è cresciuto in una
comunità di ebrei ortodossi ma ha abbandondato la religione verso i venticinque
anni; dopo aver appeso la kippah al chiodo la sua più grande liberazione è
stata poter assaggiare tutto quello che prima gli era vietato). Mi lasciò il
ricordo di un uomo gentilissimo, umile e ironico allo stesso tempo, dedito alla
letteratura come un monaco. Penso che sia un ottimo scrittore di racconti, sono
contento che sia tornato a scriverne e spero non ci trovi niente di limitante -
lui che ha per maestri Singer e Malamud. Il racconto che dà il titolo al libro
è una specie di parodia di quello di Carver, quello in cui quattro amici sempre più
ubriachi - due uomini e due donne - discutevano di cosa fosse l’amore; anche
qui ci sono quattro amici sempre più ubriachi, però discutono dell’Olocausto e
di Israele. Ci vuole del fegato a scrivere un racconto così, ed è una cosa che
ci dimentichiamo spesso: che tra le qualità dei grandi scrittori c’è il
coraggio di provare a scrivere la cosa più difficile. Nathan di coraggio ne ha
da vendere. Se lo incontro di nuovo al cinese di Elizabeth
Street gli offro senz’altro un saké bollente.