Ho conosciuto
Mara Cerri qualche anno fa, grazie a un amico più vecchio di noi e con la
vocazione del ponte: lui ha la passione di far incontrare gli altri,
specialmente se hanno la vocazione dell’isola. Mara e io siamo isole. Il primo
libro suo che ho letto - anzi letto non è la parola giusta, bisognerebbe trovarne un’altra
per le cose di Mara - è stato Via Curiel 8. Era una storia muta, tutta affidata ai
disegni, su un bambino e una bambina che crescono nello stesso palazzo senza
incontrarsi mai. Soffrono di due
solitudini gemelle, come celle separate da un solido muro. Inventano mondi
immaginari dove trovare rifugio, e grazie a questo potere, proprio come se
scavassero un buco nella distanza che li separa, finiscono per incontrarsi lì,
nell’immaginazione, abbracciarsi in un luogo che esiste solo per loro.
Quando il libro mi capitò per le mani avevo appena scritto i racconti di Una cosa piccola che sta per esplodere. Erano anche quelle storie di ragazzini, di solitudini e incontri inaspettati, collisioni che cambiano traiettorie alle vite e poi le vite non sono più le stesse. Mi sembrò di ritrovare una vecchia amica. Nella mia fantasia, la bambina e il bambino di Via Curiel 8 eravamo Mara e io: anche noi eravamo cresciuti nella stessa solitudine, avevamo cominciato a disegnare e scrivere per trovare rifugio, e scava scava avevamo finito per incontrarci. Quando successe, scoprimmo di essere molto simili. Non solo per le tante combinazioni nei ricordi di due coetanei, ma perché stavamo immaginando entrambi la storia di una ragazzina in nero. Io in quel periodo scrivevo i primissimi racconti di Sofia, e ogni tanto Mara mi spediva uno di questi disegni: li stampavo, li ritagliavo e li appiccicavo sui miei quaderni, e mi sembravano le illustrazioni ideali delle storie che stavano nascendo. Mi ispiravano atmosfere e stati d’animo. Le storie poi le mandavo a lei, e non so che cosa ne abbia fatto ma spero l’abbiano aiutata almeno un po’ con i suoi disegni.
Poi una notte d’estate feci uno strano sogno, di me stesso che scrivevo un racconto. Miracolosamente quando mi svegliai lo ricordavo quasi tutto. In una mattina di furore creativo, di quelle che poi rimpiangi per il resto della vita, lo trascrissi più fedelmente che potevo, sapendo che era qualcosa di diverso dai racconti che scrivevo di solito e senza immaginare che cosa ne avrei fatto. Rileggendolo pensai che dentro c’era qualcosa per Mara, e glielo mandai. Da allora abbiamo passato qualche anno a spedirci aveanti e indietro disegni e parole, e anche il racconto è cambiato parecchio da quella versione iniziale, ma adesso eccolo qui: è diventato un libro vero, pubblicato da una casa editrice bella come Orecchio Acerbo, e naturalmente è dedicato al nostro amico, l’uomo-ponte senza cui queste due isole non si sarebbero mai incontrate.
È la storia del sogno di uno scrittore e di un ragazzino che ha paura dell’acqua. Anzi no: è lo scrittore che ha paura dell’acqua, il ragazzino ha paura di diventare grande. Sott’acqua lui ci sta meglio, e sott’acqua è il posto in cui tornare se lo scrittore vuole trovare le sue storie. È un libro per grandi, ma secondo me lo possono leggere anche i bambini. Io gli sono molto grato. Per gli altri provo sentimenti contrastanti, un misto di orgoglio, vergogna, affetto, distanza critica; per questo pura e semplice gratitudine. Me lo giro e rigiro tra le mani come un dono. Se vivessi molti secoli fa inventerei un proverbio che dice così: non c’è modo migliore di essere amici che fare insieme una cosa bella.
Quando il libro mi capitò per le mani avevo appena scritto i racconti di Una cosa piccola che sta per esplodere. Erano anche quelle storie di ragazzini, di solitudini e incontri inaspettati, collisioni che cambiano traiettorie alle vite e poi le vite non sono più le stesse. Mi sembrò di ritrovare una vecchia amica. Nella mia fantasia, la bambina e il bambino di Via Curiel 8 eravamo Mara e io: anche noi eravamo cresciuti nella stessa solitudine, avevamo cominciato a disegnare e scrivere per trovare rifugio, e scava scava avevamo finito per incontrarci. Quando successe, scoprimmo di essere molto simili. Non solo per le tante combinazioni nei ricordi di due coetanei, ma perché stavamo immaginando entrambi la storia di una ragazzina in nero. Io in quel periodo scrivevo i primissimi racconti di Sofia, e ogni tanto Mara mi spediva uno di questi disegni: li stampavo, li ritagliavo e li appiccicavo sui miei quaderni, e mi sembravano le illustrazioni ideali delle storie che stavano nascendo. Mi ispiravano atmosfere e stati d’animo. Le storie poi le mandavo a lei, e non so che cosa ne abbia fatto ma spero l’abbiano aiutata almeno un po’ con i suoi disegni.
Poi una notte d’estate feci uno strano sogno, di me stesso che scrivevo un racconto. Miracolosamente quando mi svegliai lo ricordavo quasi tutto. In una mattina di furore creativo, di quelle che poi rimpiangi per il resto della vita, lo trascrissi più fedelmente che potevo, sapendo che era qualcosa di diverso dai racconti che scrivevo di solito e senza immaginare che cosa ne avrei fatto. Rileggendolo pensai che dentro c’era qualcosa per Mara, e glielo mandai. Da allora abbiamo passato qualche anno a spedirci aveanti e indietro disegni e parole, e anche il racconto è cambiato parecchio da quella versione iniziale, ma adesso eccolo qui: è diventato un libro vero, pubblicato da una casa editrice bella come Orecchio Acerbo, e naturalmente è dedicato al nostro amico, l’uomo-ponte senza cui queste due isole non si sarebbero mai incontrate.
È la storia del sogno di uno scrittore e di un ragazzino che ha paura dell’acqua. Anzi no: è lo scrittore che ha paura dell’acqua, il ragazzino ha paura di diventare grande. Sott’acqua lui ci sta meglio, e sott’acqua è il posto in cui tornare se lo scrittore vuole trovare le sue storie. È un libro per grandi, ma secondo me lo possono leggere anche i bambini. Io gli sono molto grato. Per gli altri provo sentimenti contrastanti, un misto di orgoglio, vergogna, affetto, distanza critica; per questo pura e semplice gratitudine. Me lo giro e rigiro tra le mani come un dono. Se vivessi molti secoli fa inventerei un proverbio che dice così: non c’è modo migliore di essere amici che fare insieme una cosa bella.