per Alice, Charles,
Ernest, Peter, Ray,
Richard e Toby
Tuo padre e la sua macchina sembravano una cosa sola. Preferiva le Chevrolet. Parlava dell’Ovest in cui era cresciuto come dell’unica America ancora intatta: dove un uomo poteva avere tutto lo spazio che gli serviva, e una macchina per attraversarlo da parte a parte. Conservi una foto di lui a ventidue anni, appoggiato al cofano di un furgoncino Ford, una sfilza di persici gialli in una mano e una bottiglia di birra nell’altra: fissa l’obiettivo con aria di sfida, come se facesse a gara con qualcuno, ma è il sorriso che lo tradisce, l’impacciata spavalderia di quell’età. La birra è una Bud. Per tutta la vita, senza troppo successo, tuo padre ha cercato di sembrare un duro.
Tuo padre e le sue chiacchiere da imbonitore. Discorsi seri, da uomo a uomo, su argomenti che magari eri troppo piccolo per capire, ma un giorno eccome se gli avresti dato ragione. Ogni tanto ti chiedevi se non stesse parlando da solo. Se accennava a tua madre la chiamava proprio così: tua madre. L’umore di lei oscillava tra il poco arrabbiata e il molto arrabbiata con lui. Una volta che era poco arrabbiata lasciò che tuo padre ti portasse a sciare, alla vigilia di Natale, a patto di essere a casa per cena: soltanto che, nella neve del pomeriggio, lui trovò una qualità rara e preziosa che lo spinse a un’ultima discesa, e poi a un’ultima ancora, e poi a un’ultimissima. Nel frattempo nevicò così tanto che la polizia chiuse la strada. Questa tua madre non me la perdona, disse tuo padre davanti alle transenne. Dovevamo partire prima, commentasti tu, piccolo petulante. E allora come ne uscì, tuo padre, vedendosi preso in mezzo tra una donna e un ragazzino, entrambi convinti di essere più saggi di lui? Oltrepassò il cartello di divieto, spostò le transenne e si fece tutta la discesa nella neve fresca. Tu non lo fare mai, ti disse, capace di darti una lezione anche mentre infrangeva la legge. I bordi della strada non si vedevano più. Sulla neve sembrava di planare. Magari era un irresponsabile, però bisogna ammetterlo, che guidatore: sensibilissime le dita sul volante, leggerissimi i piedi sui pedali.
Tuo padre, l’affilatore di lame. Ricordi il gesto di pulirsi la mano sui calzoni, prima di stringerla ad altri. La bottiglia di whisky da quattro soldi nascosta sotto il lavandino. Davanti alle bizzarrie del mondo, lo stecchino di tuo padre passava da un angolo all’altro della sua bocca mentre lui considerava i modi in cui la gente si rovina. Aveva un amico giù alla segheria che possedeva uno stagno, e si era comprato un barile di trotelle con l’idea di allevarle e rivenderle ai pescatori: solo che a quelle trote finì per affezionarsi troppo. Era uno la cui moglie si vedeva spesso in giro, e forse questo c’entrava. Cristo, guarda che roba, disse tuo padre, quando ti portò a pescare allo stagno del suo amico, e l’acqua ribolliva di pesci. Gli consigliò di tirarne fuori un po’ se voleva far crescere gli altri, e quello in risposta prese il fucile e vi cacciò da casa sua. Tuo padre scosse la testa e non ne parlò mai più - erano le cose che non capiva, oltre al whisky cattivo, quelle che alla fine l’avrebbero ammazzato.
Tuo padre e suo padre: eccone un’altra di cui non parlava mai. Hai una foto di loro due di spalle sulla riva del lago Michigan. Lì tuo padre non è che un ragazzino. Tuo nonno invece è appena tornato dalla guerra, quella grande, e ora indica qualcosa all’orizzonte: forse spiega a tuo padre quant’è profondo il lago, forse gli elenca le città dal nome indiano sull’altra sponda. In casa ha ripreso subito il suo trono a capotavola. Con la mano sinistra indica, ma con la destra stringe il collo di tuo padre, e quella stretta è una morsa. Non sa che, mentre lui era nel Pacifico, suo figlio ha segretamente sperato che non tornasse. Anche se a scuola disegnava suo padre a bordo di una corazzata e scriveva: Giapponesi attenti, arriva papà! Anche se adesso resiste alla stretta di quell’uomo, osserva il lago e si sforza di vedere quello che vede lui.
Tuo padre, il venditore porta a porta. Quale mestiere migliore per uno con la sua parlantina? Ricordi il giorno che ti portò con sé e allungò il solito giro per andare a salutare una vecchia amica: lei abitava in una fattoria, era sola in casa, fu stupita di vederlo e anche un po’ offesa, come per un’antica questione tra loro due. Disse be’, chi non muore si rivede. Benché tu non ti ricordassi affatto di quella donna, lei giurò di averti preso in braccio che eri grande così, e non riusciva a credere quanto fossi cresciuto. Dopo che si fu ammorbidita vi invitò dentro a bere qualcosa di fresco. Era estate. Loro due ne avevano di cose da raccontarsi. Quando la radio passò una certa canzone tuo padre si alzò da tavola e prese la sua amica per i fianchi, e lei accettò di ballare, rise, le si arrossarono le guance, poi però successe qualcosa e il ballo si interruppe a metà, e ve ne andaste dopo non molto, nell’imbarazzo generale. Per una volta, durante il viaggio di ritorno tuo padre non canticchiava. Questo non lo raccontare a tua madre, disse. Non capirebbe.
Tuo padre senza lavoro. Tuo padre che sosteneva di avere un affare per le mani. Tuo padre, l’ottimista: diceva sempre che era l’ora di svoltare, darsi una mossa, traslocare, lasciare quel buco di città e andare dove giravano i soldi, allungare la mano e cogliere una buona volta la maledetta mela americana. Da anni sognava di rapinare una banca. Il piano lo conosceva nei dettagli, avendo rapinato quella banca, nella sua testa, già un milione di volte o due. Più di tutto si era studiato le battute. Tuo padre e la sua convinzione che il punto stesse nel saperci fare, la sua incapacità fisiologica di prevedere i contrattempi, la sua arte di scovare all’ultimo una via di fuga. Quando fu ora di scegliere tra la sua amica e tua madre, entrò nel servizio forestale e se ne andò in montagna a domare gli incendi.
Tuo padre e la guerra che aveva fatto, quella sporca. Le lettere che mandava da laggiù, lettere per tua madre giovane che tu leggesti molto tempo dopo. Era già tornato a quel punto, e da qualche parte ogni tanto riusciva ancora a ripescare quella sua allegria, il sorriso a cui le ragazze non resistevano. Ma nelle lettere aveva perso perfino le parole. Cominciava a raccontare dei villaggi, dei bambini, e poi si fermava di colpo come se ci avesse ripensato, e scriveva di te e di tua madre e diceva che se una cosa gli dava un po’ di sollievo era sapere che c’eravate voi due, in un posto lontano lontano, che non ne sapevate nulla e non ve lo potevate nemmeno immaginare. Però alla fine non ti negò l’esperienza di trovarlo con la testa spappolata, nella sua macchina - e dove altro? - accasciato sul volante coi tergicristalli che andavano, solo che non riuscivano a pulire niente perché tutto lo schifo era all’interno.
Tuo padre il cacciatore, il pescatore. Qualche anno prima di farsi saltare le cervella. Ti insegnò a infilare una cavalletta nell’amo, e per tutta la vita avresti ripensato a lui ogni volta che quel sugo color tabacco ti macchiava le dita. Una notte l’avevi visto praticare un cesareo. Tuo padre il medico degli altri, la malattia di se stesso: al ritorno, sulla barca, lui remava in silenzio e tu accarezzavi la superficie dell’acqua con la mano. Gli chiedesti se era difficile morire, lui ci pensò un po’ su e poi disse: dipende. Ci mettesti del tempo a capire quella risposta evasiva. Il fatto che c’erano cose di cui tuo padre non era per niente sicuro, eppure si sentiva in dovere di fingere di sapere anche quelle. Perché fosse così importante non dire mai: non lo so. E che tuo padre non avrebbe mai ceduto i remi della barca ad altri, né il volante della Chevy, né il comando delle operazioni, perché magari quella strada non portava da nessuna parte, ma finché stavi nella sua macchina si andava dove diceva lui.
(Questo testo è liberamente tratto da due romanzi, sei racconti e una poesia. Chi li trova tutti vince un libro a sorpresa.)