(Oggi esce un libro speciale per me. Si intitola Back to the Wild ed è la raccolta delle fotografie, e dei pochissimi testi, lasciati da Chris McCandless durante il suo vagabondaggio di due anni in giro per l'America. È stato pubblicato dalla fondazione benefica della famiglia McCandless e portato in Italia dai ragazzi di No Borders Magazine, che mi hanno chiesto di curarne l'introduzione. Eccola qui. Per me è stato un onore non solo scriverla, ma sapere che i genitori di Chris l'hanno letta e ne sono stati contenti. Il libro è in edizione limitata, è disponibile soltanto online e si può comprare qui.)
Il mistero più grande intorno a Chris McCandless, per chi come me l'ha amato dopo e da lontano, non è tanto la meta del suo famoso viaggio - un progressivo addio alla società, alla famiglia, alle relazioni affettive, ai beni materiali - quanto l'assenza di una scia di parole a segnarne la strada. Thoreau era andato nei boschi per gli stessi motivi, ma con il proposito di scriverne un resoconto: altrimenti, per come la vedeva lui, la sua esperienza non avrebbe avuto senso. E così la vedeva anche l'altro maestro di Chris, Tolstoj, inseparabile dal proprio diario, per la stessa convinzione che una ricerca personale sia incompiuta se non finisce nella parola, come un esperimento è inutile se i suoi risultati non vengono comunicati al mondo. Chris invece non scriveva quasi niente. Il suo epistolario è ridotto all'osso: una manciata di cartoline in tutto - cartoline! - e quell'unica lettera di rilievo, spedita a un amico prima dell'Alaska e finita per diventare un testamento spirituale. Quella lettera infittisce il mistero anziché risolverlo: dunque Chris era uno che sapeva scrivere, anzi lo faceva con passione, ma allora perché non ci ha lasciato una riga? Provate a prendermi, sembrano dire i suoi rari messaggi. O meglio: provate a capirmi. Come la tavola di legno ritrovata nel magic bus, la saga di Alexander Supertramp cantata da sé medesimo, non priva di retorica ma nemmeno di ironia (niente biliardo! niente cani né gatti! niente sigarette!). E soprattutto il registro di caccia alaskano, una beffa per chi cercherà di decifrarlo - oggi tre scoiattoli, oggi un porcospino, oggi niente, oggi niente - quasi a dire che il cibo, il bene sacro a cui non si può rinunciare, è anche l'unico fatto di cui valga la pena di tenere traccia, altro che ricerca interiore (Chris è morto di fame, alla fine, perciò in fondo aveva ragione lui: il cibo era davvero la cosa più importante da registrare. Ma in quel foglio c'è una tensione drammatica di cui non poteva essere consapevole. Non sapeva come sarebbe finita e non sapeva che dentro ci avremmo letto la storia di un'agonia, immaginando che cosa gli è successo dalla cronaca della sua dieta). Ecco il punto, l'omissione che sarà risultata intollerabile a chi gli voleva bene: non ci pensava a noi che restiamo? Oppure ci pensava eccome, e il silenzio è stato un'altra ribellione, le parole un altro artificio di cui ha voluto spogliarsi?
Poi c'è quell'ultimo biglietto. La foto con quel sorriso scheletrico e la pagina in cui ha scritto che lui non si era mica sbagliato, gli andava benissimo così: ho avuto una bella vita, grazie di tutto, addio. Con l'altra mano saluta, come uno che sta per partire. Eppure: perché non riesco a guardarlo senza vederci un bisogno disperato di spiegarsi, di parlare con noi?
Poi ci sono le foto, appunto. Quegli autoscatti celebrativi, così in contraddizione con la scelta del silenzio. A me parlano di un ragazzo di ventiquattro anni - l'età è una cosa che tendo a dimenticare quando penso a Chris - che certe volte avrà avuto paura durante il suo viaggio, e si sarà sentito molto solo. Allora forse aveva bisogno di mettersi in posa, alzare il pugno al cielo, ululare come un lupo e trasformarsi ancora una volta nel suo supereroe vagabondo. È una vanità innocente, per come la vedo io - un modo di farsi compagnia e coraggio - eppure, osservando le foto di questo album, ogni tanto mi viene da chiedermi chi le abbia scattate. Sembra impossibile che non ci fosse nessuno, dall'altra parte dell'obiettivo. Per chi stavi sorridendo in quel modo, a chi regalavi quell'istante così pieno di vita? Viene da immaginare un amico, un'amica, un amore di qualsiasi tipo. Non può essere solo l'orizzonte, una macchina fotografica appoggiata sullo zaino. Chi stavi guardando in quel momento? Guardavi la tua famiglia, oppure Wayne, Jan, Russell, e tutti quelli che hanno cercato di adottarti? Stavi guardando te stesso da vecchio, sempre che tu ti sia mai immaginato così, per ammonirlo come hai fatto con loro, ricordargli qualcosa che nel frattempo poteva essersi dimenticato? Stavi guardando noi che ti guardiamo adesso, vent'anni dopo, e siamo qui a cercare le parole che tu, caro Chris, hai deciso di non lasciarci? Stavi guardando me?
Personalmente, la storia di Chris McCandless mi è stata di grande ispirazione. Non solo filosofica: avrei fatto scelte diverse, credo, se non ne fossi venuto a conoscenza, abiterei in altri posti, starei con altre persone; in un momento particolare, mi ha dato il coraggio che mi serviva. Chris era uno di quelli che cambiano le vite degli altri, e non ha smesso di farlo nemmeno dopo. Se potessi mandargli una cartolina da questo punto della mia vita, ne sceglierei una con una bella montagna e dietro ci scriverei grazie, con il minimo possibile di parole, come piaceva a lui.