Vado e vengo da New York ormai da dieci anni. Secondo il passaporto, dal 2004 a oggi ci ho passato circa un anno della mia vita. Mi ricordo quella prima estate, la città ancora scossa dal crollo delle Torri e piena di polizia, i cortei contro la guerra in Iraq che sfilavano per Manhattan; e poi l'autunno dell'elezione di Obama e il vecchio musicista nero che piangeva al Nuyorican Poets Cafe; e poi Occupy Wall Street, la rabbia che si respirava nelle strade quell'inverno, i barboni accampati tra chi aveva perso casa e lavoro. Sei un newyorkese - ha scritto Colson Whitehead - quando ti manca quello che c'era prima, ma forse lo sei anche quando ricordi ciò che non c'era, e hai esultato per il suo arrivo. Io ho visto nascere la High Line (con gioia), la Freedom Tower (con sospetto), il Brooklyn Bridge Park (con entusiasmo), e un numero incalcolabile di grattacieli (con indifferenza). Voler bene a New York significa accettare la sua natura, che è quella del cambiamento. Anzi: più rapidamente New York cambia più gode di buona salute; quando rallenta è perché non sta bene; quando si fermerà sarà spacciata. Nel 2004 i quartieri sulla bocca di tutti erano Chelsea e Williamsburg (ma gli artisti se n'erano già andati, spinti via dai prezzi degli affitti, e li davano ormai per morti). Nel 2014 si parla parecchio di Harlem, Astoria, Red Hook (e chissà che non sia già tardi anche per loro). Il fatto è che se insegui le mode - anche le mode alternative sono pur sempre tali - a New York ti viene una malattia che è l'urgenza di stare davanti agli altri, riuscire a cogliere le novità quando non sono ancora vecchie, scoprire segreti che solo in pochi sanno, goderti ciò che è autentico prima che le masse di turisti rovinino tutto. Si potrebbe scrivere un bel saggio su New York e lo snobismo. Nessun newyorkese ne è immune; poi, se uno ci pensa sopra, lascia perdere e si mette a cercare le cose che piacciono a lui.
Ecco: il libricino che esce in questi giorni si potrebbe descrivere così, una raccolta di nuove cose che mi piacciono a New York. Alcune piacciono anche agli altri, alcune solo a me. Nella mia testa è un proseguimento ideale di New York è una finestra senza tende. Parla di cibo ma soprattutto di luoghi. Ha un debito con un capolavoro che ho letto l'anno scorso (Open City di Teju Cole), non solo per l'attitudine allo smarrimento, ma per l'idea che, mentre tu esplori la città e la descrivi, la città esplora e descrive te. Il paesaggio che attraversiamo è sempre uno specchio di noi. Sono legato a quest'idea e a una definizione che Gabriele Basilico dava di Milano, eleggendola a sua palestra dello sguardo. Diceva che lì i suoi occhi si erano formati, e anche quando poi se n'era andato a fotografare il mondo erano quegli occhi che aveva usato, e a Milano sentiva il bisogno di tornare ogni volta per tenerli in allenamento. O per affilare il coltello alla mola, diceva Hemingway parlando di scrittura. Anche a me sembra in questi dieci anni di aver trovato la mia palestra, la mia mola: perché ogni volta che mi sono sentito svuotato alla fine di un libro, e inaridito di parole, tornare a New York è stato come ricominciare da un punto d'origine, imparare di nuovo a mettere a fuoco le cose, a guardare, a raccontare. Certe volte qualcuno mi chiede: che cosa c'entra New York con la montagna? E io rispondo che li vivo come luoghi molto simili, luoghi di solitudine e cammino, di osservazione e di ascolto. È il secondo libro che scrivo sulla città, ma preferisco immaginarlo come un secondo capitolo; spero che New York continui a essere questo per me e ce ne siano molti altri in futuro.
Lo presento a Torino, al salone del libro, domenica 11 maggio; alla libreria Gogol di Milano venerdì 16 (dopo una biciclettata da Pavia); di nuovo a Milano, a Macao, con un reading musicale venerdì 23. Poi vedremo.
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Newyorkesità
All'angolo tra Chambers Street e Broadway, mentre cerco l'ennesimo cimitero, una vecchietta mi afferra per il braccio e grida: devo attraversare! È una mattina umida di novembre, io ho in mano una tazza di caffè fumante e lei uno di quei bastoni da ciechi, una bacchetta bianca che agita davanti a sé tastando l'aria. Indossa un cappotto marrone consumatissimo. Non so perché abbia scelto me, che tra l'altro ho appena attraversato nella direzione opposta, ma non ho fretta e nemmeno mi dispiace questa intrusione nella mia solitudine, così giro i tacchi, passo il caffè nell'altra mano, prendo il suo braccio sotto al mio e lo stringo. Non si preoccupi, le dico. La aiuto io.
È verde!, grida la vecchietta, sentendo che gli altri intorno a noi si avviano. Poi mi tira giù dal marciapiede e mena fendenti con la sua bacchetta aprendo un varco nella folla per tutt'e due. Ci guardano male, ma tanto lei è cieca e se ne frega. Attento all'autobus!, sbraita premurosa, quando un pullman turistico a due piani ci passa accanto diretto al ponte di Brooklyn. Mi chiede di accompagnarla alla fermata della linea A, e intanto molla una bastonata al muso di un taxi che sta cercando di svoltare. Approdati sulla sponda opposta cerco un'entrata della metro, provo a dirigere la coppia in quella direzione, vengo subito rimesso in riga: non le scale, l'ascensore!, ordina la vecchietta, e mi strattona verso un gabbiotto metallico piantato in mezzo al marciapiede. Lì finalmente si calma. C'è un breve momento di intimità, io e lei da soli, mentre aspettiamo che l'ascensore arrivi. Bevo un sorso di caffè e vorrei dirle che non ho mai avuto una nonna da portare a spasso, lei invece ce l'ha un nipote? Potrei almeno chiederle il suo nome e dirle il mio. Ma mentre combatto con la timidezza le porte si aprono e, fulmineamente, la vecchietta abbandona il mio braccio e artiglia quello di un tizio elegante che sta entrando nell'ascensore. Devo scendere!, grida. È come uno di quei balli in cui ti battono un colpo sulla spalla, e sei costretto a cedere la dama a qualcun altro. Il tizio sbuffa e prende in consegna la mia vecchietta. Poi fa un passo insieme a lei nell'ascensore ed entrambi spariscono dalla mia vita.
Forse per i modi spicci, forse per i capelli bianchi arruffati, mi è venuta in mente una poesia di Grace Paley che dice così:
un uomo di new york è
fermo all'angolo di una strada
sorride a un pompiere aggrappato
alla scala della sua autopompa
l'autopompa passa tra di noi
svolta lenta all'incrocio sta
tornando alla stazione dei pompieri
io sono in un taxi bloccato nel traffico
sorrido all'uomo sorridente lui
annuisce cortese noi
riconosciamo nell'altro la newyorkesità