Ho cominciato a leggere racconti verso i sedici anni. Cioè, in pratica, quando ho cominciato a leggere per conto mio. I primi furono quelli di Bukowski: Storie di ordinaria follia, Taccuino di un vecchio porco, Musica per organi caldi. Adoravo il vecchio Hank come una rockstar, anzi un punk alcolizzato ed erotomane sopravvissuto fino alla terza età. Lo scrittore successivo a farmi secco fu Hubert Selby Junior, il tossico, il tubercolotico, con Ultima fermata a Brooklyn, e poi venne Dago Red di John Fante, quel figlio di immigrati abruzzesi che proprio Bukowski aveva salvato dall'oblio. Sono tortuose le vie che ti portano da un libro all'altro: allora la mia tecnica era quella di cercare gli scrittori preferiti dei miei scrittori preferiti - e in effetti funzionava. Mi piacevano gli americani per la loro lingua semplice, e per la vita che traboccava dai loro libri. Mi ero già accorto anche di preferire i racconti ai romanzi: avevo sedici anni e una fretta del diavolo, volevo storie che si potessero leggere tutte in una volta, ero impaziente di sapere come andavano a finire; dei romanzi saltavo le pagine per arrivare in fondo il prima possibile. Presto dentro presto fuori, per dirla con Carver. Lui era un altro che si annoiava subito: non mi fate annoiare, diceva, perché se no a pagina due scaglio il libro contro il muro. È il caratteraccio tipico del lettore di racconti.
Votandomi alla forma breve non sapevo che avrei avuto una vita così dura, ma lo scoprii molto presto. Le raccolte di racconti in libreria erano rare, ben nascoste negli scaffali più bui, destinate a tornare in fretta negli scatoloni. Quelle tradotte dall'americano risultavano misteriosamente manomesse: mancavano racconti dell'edizione originale, l'ordine era cambiato, il titolo irriconoscibile; un'antologia monumentale veniva spezzettata in libricini a cadenza incerta, che poi smettevano di uscire perché non li comprava nessuno. C'erano titoli fuori catalogo alla cui ricerca battevo biblioteche e mercatini delle pulci. Ricordo nitidamente il giorno in cui mia sorella mi procurò una vecchia edizione dei racconti di Cheever, scomparsa da anni, intitolata Addio fratello mio (eravamo andati a vivere in due case diverse, e il titolo le era sembrato benaugurante). O il ritrovamento miracoloso di una copia di Jesus' Son - l'esordio di Denis Johnson - tra i fondi di magazzino di una libreria di Torino. E poi gli anni passati a cercare Harold Brodkey, Primo amore e altri affanni, perché lo vedevo citato dappertutto ma i cataloghi Mondadori l'avevano depennato da un pezzo, finché non lo pescai incredulo al chiosco dei libri usati di piazzale Baracca. E ancora un numero di Panta del 1994, in cui venivano proposte alcune nuove voci della letteratura americana, e facevano il loro esordio da noi, tutti insieme, scrittori come Charles D'Ambrosio, Jennifer Egan, Jeffrey Eugenides, Donna Tartt, William Vollman, David Foster Wallace: prima di ogni racconto c'era una foto dell'autore a tutta pagina, e io stavo lì a fissare quei volti come fossero lontani amici di penna. Cosa stavano facendo adesso? Sarebbero mai diventati dei grandi scrittori, o il loro momento di gloria finiva lì? Wallace aveva la bandana in testa e quella sua aria da bambinone corrucciato. D'Ambrosio pescava trote sulla riva di un fiume impetuoso, e in quel momento scrivere sembrava proprio l'ultimo dei suoi pensieri.
Il racconto di Wallace in quell'antologia era il bellissimo Per sempre lassù. Quello di D'Ambrosio, Il suo vero nome, riusciva perfino a superarlo. Ogni tanto incontravo lettori - e se per questo li incontro ancora - che dichiaravano con noncuranza: "io non leggo racconti", come un amante della musica che si rifiuti di ascoltare il jazz. Abitavamo decisamente mondi diversi. Così cominciai a dire in giro, con la stessa aria di superiorità, che io non leggevo romanzi. Ed era vero. Ho letto davvero pochissimi romanzi in vita mia, ma ho una biblioteca di racconti che per anni è stata il mio orgoglio e la mia compagnia. Noi lettori di racconti facciamo una cosa che coi romanzi non si fa: la sera abbassiamo le luci, sfiliamo dalla biblioteca un vecchio racconto che abbiamo amato molto, lo mettiamo sul piatto e ci sediamo in poltrona a gustarcelo come un pezzo già ascoltato mille volte, sapendo a memoria come gira la musica, assaporandola proprio per questo.
Poi c'erano gli editori. Quelli che pubblicavano racconti li consideravo eroi carbonari. Erano piccoli, quegli editori lì, e potevano pubblicare solo i libri che i grandi editori scartavano, come cercando tesori nella discarica sconfinata dei libri che non vuole nessuno. C'erano i misteriosi Serra & Riva (negli anni Ottanta avevano scoperto Cattedrale di Carver e Il percorso dell'amore di Alice Munro). La benemerita Tartaruga (editore femminista che ha sempre pubblicato solo donne, tra cui ancora la Munro, Margaret Atwood, Grace Paley, e poi una raccolta di racconti che per anni ho sostenuto essere il mio libro preferito: Ho un debole per i cowboy di Pam Houston). E poi editori che nella mia testa collegavo a uno scrittore-bandiera: Marcos y Marcos pubblicava John Fante, Fandango pubblicava Cheever, e/o pubblicava Joyce Carol Oates, minimum fax pubblicava Carver e poi dal 2001, con Burned Children of America, cominciò a pubblicare un'intera generazione di scrittori di racconti, e io li ho letti proprio tutti dal primo all'ultimo. Tom Jones. David Means. Charles D'Ambrosio. A.M. Homes. George Saunders. Rick Moody. Di quanti scrittori mi innamorai al primo colpo. Sono stati anni entusiasmanti.
Dei cinquecento e passa volumi della mia collezione ce ne sono sette che ho messo uno accanto all'altro in uno scaffale appartato, che considero lo scaffale dei miei libri preferiti. I quarantanove racconti di Hemingway. Tutti i racconti di Flannery O'Connor. I Nove racconti di Salinger. I Piccoli contrattempi del vivere di Grace Paley. Da dove sto chiamando di Carver. Nemico amico amante di Alice Munro. E Ho un debole per i cowboy di Pam Houston. Quattro a tre per le donne, per fortuna. Alla Tartaruga sarebbero fiere di me. Quando guardo quello scaffale sono proprio contento che quei libri siano lì, come uno è contento che una certa persona sia al mondo, e stia facendo le sue cose, pure se non la vede da un po'. Ciao, mi viene da dirgli la mattina.
Tutto questo solo per annunciare che ieri è uscito un libro che ho scritto io, e ha pubblicato minimum fax, sulla mia storia di lettore di racconti. Si intitola A pesca nelle pozze più profonde. Non è un manuale di pesca né di scrittura creativa. È piuttosto il tentativo di mettere insieme certi pensieri ricorrenti, certe intuizioni avute durante quegli ascolti serali; è un provare a dire perché alle storie di mille pagine preferisco quelle di venti; è un lavoro che mi ha richiesto molta fatica, più di quella che faccio di solito per scrivere una storia; e infine è una dichiarazione d'amore. Ho scritto questo libro soprattutto per dire a certi scrittori, vivi e morti, che io gli voglio bene.
È diviso in tre parti. La prima parla di mistero. La seconda parla di amore. La terza parla di Sofia. Quando un libro infine viene pubblicato sembra già una cosa lontanissima, scritta da qualcuno che eri tempo fa e che torna a cercarti dal passato: hai ancora una fretta del diavolo, salti ancora le pagine per arrivare alla fine, e quando lo sfogli non riesci a credere che quello scrittore eri proprio tu.