Il corpo di Ettore Castiglioni, milanese di buona famiglia, alpinista tra i più forti degli anni Trenta, emerse nel giugno del '44 dalla neve che si scioglieva, nei pressi del passo del Forno che divide l'Italia dalla Svizzera. In marzo l'avevano fermato al di là del confine, non era la prima volta che succedeva, ormai lo conoscevano: uno strano tipo di partigiano solitario che dall'autunno faceva avanti e indietro per le montagne di frontiera, sfruttando le sue doti di alpinista per tenere i contatti tra la Resistenza italiana e gli antifascisti rifugiati in Svizzera, alcuni dei quali lui stesso aveva accompagnato di là. Dove era stato arrestato non c'era un carcere, così per evitare che scappasse gli avevano tolto la giacca, i calzoni e le scarpe e l'avevano chiuso in una stanza d'albergo. Castiglioni era scappato lo stesso: in marzo, di notte, sotto la nevicata, con una coperta sulle gambe e i ramponi legati agli stracci avvolti ai piedi, aveva risalito il ghiacciaio puntando un valico a tremila metri. Ce l'aveva perfino fatta. Al di qua del confine doveva essersi fermato a riposare, si era appoggiato contro un masso, aveva ceduto alla fatica e al sonno e non si era più svegliato. Era morto nel modo in cui desiderava: "LIBERTÀ. E così sia", aveva scritto nei suoi diari pochi mesi prima, come dettando un epitaffio.
Chi era davvero Ettore Castiglioni si seppe solo mezzo secolo dopo, quando il nipote Saverio Tutino, partigiano lui stesso e poi giornalista, corrispondente per l'Unità dalla Cina e da Cuba, fondatore dell'archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, trovò quei diari nei cassetti di casa e li portò a un editore. Sarebbero diventati Il giorno delle Mésules, che oggi Hoepli ripubblica nella collana Stelle Alpine e che personalmente considero il più bel libro d'alpinismo della mia biblioteca. Perché in queste pagine, come nella letteratura di genere non succede mai, la montagna si fonde a un'epoca e l'alpinista al cittadino, all'intellettuale, all'antifascista, infine al partigiano.
Castiglioni era nato nel 1908, da quella borghesia milanese a cui veniva impartita un'educazione laica, liberale, umanistica nel senso più vasto del termine: ne facevano parte gli studi classici ma anche l'arte, il teatro, la musica. E ne faceva parte la montagna. La montagna era la scuola in cui insegnare a questi figli colti e benestanti altri valori, come la forza interiore, la sopportazione della fatica, la responsabilità di se stessi e degli altri, l'amore per una vita libera, austera, divisa con gli amici più intimi. Ettore cominciò ad arrampicare con i fratelli maggiori fin da ragazzino. Solo che per Bruno e Manlio, come per molti altri, la montagna sarebbe rimasta soltanto una passione giovanile, poi sacrificata ai doveri dell'età adulta, al ruolo di marito e di padre e a una solida professione in città; a Ettore invece quell'amore avrebbe cambiato la vita. “A Milano mi sento sempre di passaggio, anche quando vi resto per parecchi mesi. Fra le mie crode mi sento a casa mia.” Per tutta la giovinezza furono i suoi due mondi, le sue due stagioni: gli inverni in città, il pianoforte, la Scala, le aule universitarie, la Sormani, i libri; le estati a vagabondare sui sentieri, dormire nei rifugi e nei fienili, spellarsi le mani sulla roccia. “Partivo da solo, non sapevo dove andavo: prendevo una strada e la seguivo alla ventura. E così vivevo della vita più piena, più pura, più giovanile.” Poi però sarebbe cresciuto in fretta. Aveva diciannove anni, nel '27, quando morì sua madre. Nel '30 partì militare, nel '31 tornò a Milano per laurearsi in legge. Allora il tempo delle scorribande sembrò finito per l'avvocato Castiglioni: il padre aveva dei progetti per quel figlio irrequieto e lo spedì a farsi le ossa lontano da casa, a Londra, nel '32, forse anche per levargli le montagne dalla testa. Ottenne il risultato contrario: in quell'anno triste di esilio, dubbi, sensi di colpa, Ettore comprese in pieno la sua vocazione e decise di seguirla, a costo di deludere il padre. “Dal momento che ho la possibilità di esser felice e di vivere pienamente la mia vita, perché non debbo farlo? Ho sentito la necessità di dedicare la mia capacità esclusivamente alla montagna.”
(Castiglioni con Bruno Detassis ai tempi della loro fortissima cordata)
Tornato in Italia, trovò o forse gli trovarono il lavoro adatto, appassionante benché modesto per uno con i suoi titoli: autore di guide escursionistiche per il Touring Club Italiano. Ettore lo svolse con dedizione totale. Quel compito gli permetteva di stare in montagna tutto il tempo che voleva, di allenarsi, arrampicare, sciare, e a metà degli anni Trenta raggiunse l'apice della sua carriera: tra le Dolomiti del Brenta e la Marmolada, in cordata con Detassis, Vinatzer, Pisoni, firmò vie storiche di sesto grado, allora il limite insuperato. Era anche la stagione degli eroi di regime, campioni fascisti loro malgrado come Comici, Gervasutti e lo stesso Castiglioni, che ricevendo una medaglia per meriti sportivi si indignò e giurò sul diario di non pubblicare più le relazioni delle proprie scalate. Salire sulle montagne senza dirlo a nessuno è in un certo senso la negazione dell'alpinismo, che è per metà impresa, per metà racconto (e la gloria che ne segue). Ettore decise di proteggere così la purezza del proprio andare in montagna: “il vero alpinista non può essere fascista, perché le due manifestazioni sono antitetiche nella loro più profonda essenza.” Lo comprese una volta per tutte il 18 marzo del '36, quando, vagabondando con gli sci sull'altipiano delle Mésules, cadde e si ruppe una gamba. Restò per ore nella neve in attesa dei soccorsi, e invece di piombare nella disperazione ebbe un'esperienza di pace interiore e armonia con la montagna che avrebbe ricordato per sempre. Dopo il giorno delle Mésules non gli sembrò più così importante collezionare cime né primati. “Solo chi raggiunge l'amore è alpinista”, scrisse, e qui sta forse il nucleo più autentico del suo antifascismo, la negazione dei principi di volontà, potenza e conquista che in quegli anni stavano trascinando l'Europa nel buio.
Castiglioni lo vide arrivare più con disprezzo che con paura (“una massa di imbecilli, vigliacchi, tracotanti e boriosi”, scrisse di ritorno da un viaggio a Berlino). Riuscì a starne fuori fino al '43, quando fu richiamato alle armi e assegnato come istruttore alla scuola militare di alpinismo di Aosta. L'otto settembre, nel caos generale, da ufficiale dell'esercito italiano non ebbe dubbi sul da farsi: prese con sé una decina di alpini e salì all'alpeggio del Berio, sopra al paese di Ollomont, in una valle minore e appartata. Il confine con la Svizzera è a tre ore di sentiero e presto dal Piemonte cominciarono ad arrivare ebrei e antifascisti in fuga dai tedeschi, cercando qualcuno che li accompagnasse di là. Uno di questi era Luigi Einaudi, primo presidente della Repubblica. Così il Berio diventò per breve tempo un rifugio di profughi e una piccola repubblica partigiana: “ci sentiamo davvero tutti compagni, tutti amici, tutti eguali.” Fu anche l'ultimo luogo felice di Ettore Castiglioni. Uno che per tutta la vita aveva cercato il proprio posto nel mondo e finì per trovarlo lì, nel tempo delle scelte, tra quattro baite e un pugno di uomini, avendo bene in mente la direzione da tenere. “In alto, in alto, e sempre più in alto.” E così sia.
(Il Berio come l'ho trovato io la scorsa estate. Mi dicono che il sindaco di Ollomont sia una brava persona: bisognerebbe metterci una targa.)