Le interviste vere alle volte assomigliano a un duello a colpi di
fioretto e, talvolta, di sciabola. Si attacca e ci si difende, si omettono e si
forzano le parole, non sempre chi attacca è l’intervistatore e non sempre
l’intervistato subisce. Ma quando, come nel caso mio e di Paolo Cognetti, siamo
stati spadaccini con la stessa casacca facendo decine di interviste,
radiospettacoli e serate con ospite assieme, risulta difficile mettere in campo
le schermaglie. Meglio trovarsi nei nostri quartieri milanesi, in Trattoria
Popolare con un bel mezzo litro, appoggiati al bancone che Paolo costruì
qualche anno fa, saltando i preamboli con il suo cane Lucky tra le gambe.
D’altronde cosa dire di Cognetti? Uno scrittore divenuto un caso editoriale,
sia per copie vendute del suo ultimo libro Le otto montagne (Einaudi
2016) in Italia ma, cosa ancor più strabiliante, tradotto in 34 lingue e
pubblicato in infiniti Paesi sparsi in tutti i continenti. Un versante
internazionale molto raro per gli scrittori di lingua italiana e che a me
francamente mette di buon umore pensando al libro di Paolo tradotto in
norvegese o in mandarino. Ma Cognetti ha anche un’altra qualità che non ha mai
nascosto e che compare nei suoi romanzi: la sua vicinanza al pensiero e all’azione
anarchica.
Caro Paolo, giacché questa è un’intervista per A, passerei di
lato le questioni squisitamente letterarie e punterei agli aspetti più politici
della tua opera. Iniziamo con un tuo gesto di alto valore simbolico e
comunicativo: alla finale del Premio Strega (che hai vinto) ti sei presentato
con una cravatta alla Lavallière. Avrebbe dovuto suscitare quantomeno la
curiosità della presentatrice e invece niente…
E’ vero, è stata ignorata completamente, addirittura alcuni giornali la
mattina dopo hanno commentato: “Aveva un fiocco da scolaretto” per cui più che
di rimozione, si tratta di aver dimenticato il significato… Due o tre
giornalisti me l’hanno chiesto e io ho provato a spiegarglielo ma ho visto in
loro un grande stupore, addirittura la giornalista di Repubblica mi ha
chiesto sconcertata: “Cosa intendi per anarchia?” a quel punto ho realizzato
che il vero problema è riprendere dall’inizio i concetti perché si sono persi.
Forse perché da un romanziere non ci si attende che abbia delle idee
politiche esplicite?
Oggi in Italia un po’ è così ma non lo è sempre stato, penso alla grande
generazione di scrittori usciti dalla Resistenza e alla mia casa editrice in
particolare, l’Einaudi degli anni ‘50-’60 in cui, tutti insieme, si incontravano
Pavese, Calvino, Fenoglio, Levi, la Ginzburg, Rigoni Stern… Scrittori che hanno
sempre espresso con forza le loro idee politiche.
Pertanto quella cravatta è stata una provocazione?
Io non la sento così. E’ stata una scelta meditata pensando che alle foto
che sarebbero girate e alle migliaia di persone che le avrebbero viste. Sento
molto la responsabilità di veicolare, in questo momento di forte esposizione
mediatica, alcune idee. Insomma, vuoi dire un po’ di cazzi tuoi, oppure:
“Federica ti amo!” o, al contrario, portare due simboli che significano molto
per me: il fiocco anarchico e un rametto di abete rosso nel taschino.
L’anarchia e la montagna.
Questa vicenda ci riporta direttamente ai tuoi libri, nei quali
compaiono costantemente idee e pensatori anarchici, addirittura nel romanzo Sofia
si veste sempre di nero (Minimum Fax, 2012) dedichi un capitolo intero dal
titolo: Quando l’Anarchia verrà a Leo, personaggio immerso tra le
periferie, i centri sociali e i cortei, profondo conoscitore di Kropotkin, del
pirata Misson, di Hakim Bey e le TAZ. Ma poi in altri tuoi romanzi compare un
filone più specificatamente ecologico: Thoreau, Reclus e, ne Le otto
montagne , Murray Bookchin e l’ecologia sociale. Considerando che non
scrivi saggi ma romanzi, non mi sembra poco, e poi questi ultimi pensatori
sembrano appartenere alle tue scelte di vita…
Forse perché ho vissuto a Milano dove ho cercato di lavorare, di portare
avanti dei progetti ma a un certo punto ho capito che la città non era adatta a
me o io a lei, non mi stimolava più e quindi andare in montagna è stata una
svolta consapevole, ora è nelle montagne valdostane che vivo e progetto
iniziative. Anche perché non credo che andare in montagna sia ritirarsi dalla
vita pubblica, dall’impegno, dalle cose che cerchi di fare nel mondo. Non è il
luogo dell’eremita ma dove io mi trovo meglio e più adatto a lavorare
politicamente. Naturalmente non sono situazioni che ho inventato io ma ad
esempio se leggi Thoreau, scopri una persona evidentemente inadatta ad una società
urbana. Le sue energie danno il meglio in un altro luogo. Il primo esperimento
di Thoreau non è dettato dalla filosofia , dall’estetica o dalla poesia ma la
motivazione è economica: un ventisettenne stanco di lavorare nella fabbrica di
matite del padre, molto in conflitto con chi gli è attorno che pensa: “vediamo
come me la cavo andando a vivere nel bosco” si fa prestare un terreno, compra
una baracca da dei contadini, la smonta e se la rimonta. La sfida di questo
esperimento era dimostrare di riuscire a vivere senza (o con pochissimi) soldi,
unica strada per liberarsi dal lavoro salariato e dal modello di vita che ne
consegue. E per me è stata una grande lezione: il bisogno di spazio viene dopo.
In montagna il rapporto con i soldi è più elastico che in città. Io non sono
nato in montagna, non sono Rigoni Stern o Corona che hanno raccontato dei loro
luoghi, la loro civiltà, il loro paese, la loro umanità. Io sono un nuovo
montanaro per scelta, un immigrato. Per questo ho amato molto anche New York
perché è la città di chi l’ha conquistata, di chi ha desiderato andarci per
diventare newyorkese, lottando per andare là. Appartiene molto a me e alla mia
famiglia l’idea che un posto non è dato ma lo si sceglie e conquista. Bisogna
provare a trovarlo almeno.
Ma più in generale la cultura americana e i suoi scrittori, mi sembrano
che siano un punto saldo di riferimento della tua opera, così come le radici
profonde alle quali hai dedicato anche un bellissimo documentario su la Piave
(fiume chiamato al femminile almeno fino agli inizi del Novecento). Un lungo
fluire da quelle montagne venete ancestrali, alle coste americane.
Già, l’America dei profughi, di chi scappava dalla povertà o dalla galera,
di chi era perseguitato. Di chi in definitiva se l’è inventata e non certo
l’America attuale. E poi c’è l’America della frontiera, un mito al quale sono
molto legato, questo conflitto dialettico tra Est e Ovest. Tra un Est civile
fatto di città ma anche di corruzione, un mondo nel quale è facile sentirsi
sconfitti, traditi, ma si ha sempre l’opportunità di partire verso l’Ovest
anche in senso figurato. Può essere imbarcarsi su una baleniera come per
Melville o partire verso il grande Nord come per Jack London. Una frontiera
dalla quale si può ricominciare. Questo secondo me è il cuore pulsante del mito
americano. In fondo le Alpi sono un West che mi sono trovato sotto casa.
Naturalmente oggi il mito non può essere la California ma il Nord, l’Alaska è
l’ultima frontiera americana. Di Nord si parla anche in Into the Wild di
Sean Penn, un film che per me è stato veramente importante sia per il contenuto
sia per la mia vicinanza al protagonista. Provai una profonda commozione nel
riconoscermi in Cristopher McCandless: un bravo ragazzo, un ottimo studente con
un padre molto prepotente e volitivo ma che a un certo punto rompe tutto questo
per cercare la sua strada. In fondo anch’io non sono stato un adolescente
ribelle, un ragazzo di strada, al contrario sono stato un ottimo studente bravo
in tutto sino a quando ho deciso di emanciparmi.
Per quanto riguarda le mie radici familiari, più che il Veneto di mia
madre, sento molto di più quelle paterne. Forse per questa nostra tradizione
che ogni figlio se ne va da qualche altra parte. Una storia che risale almeno a
mio trisnonno barese che ottenne una cattedra a Torino, divenendo maestro di
Luigi Einaudi. E poi ogni generazione continuò la trasmigrazione, da Torino a
Mantova, e poi Parma, il Veneto e infine Milano. Il vero lascito
familiare è questa consapevolezza che ti devi cercare un posto nel mondo e non
è detto che sia quello dove sei nato.
Consapevolezza che ti spinge a conquistare le cose con determinazione,
anche non in senso topografico: se mai ce ne fosse bisogno vorrei che tu
spendessi due parole sulla fatica di essere scrittore. Sfatare il mito del
genio maledetto e che il tuo grande successo editoriale è frutto di lavoro.
Certo. Mi è passato velocemente il mito dello scrittore ubriacone che
produce solo di notte in preda all’ispirazione: per intenderci come in
un’intervista di Fernanda Pivano a Bukowski (Quel che importa è grattarmi
sotto le ascelle, Feltrinelli) nella quale lo scrittore si dileguava su per
una scala con due bottiglie di Valpolicella (il suo vino preferito) dichiarando
che avrebbe scritto sino a quando durava il vino. Anch’io fino a vent’anni ho
creduto a queste cose. Poi una svolta è avvenuta andando in America ad
intervistare per un documentario diversi scrittori americani e tutti mi
ripetevano la loro grande disciplina, della scrittura come lavoro che se non la
vedevi sotto questa luce non saresti andato molto lontano, l’ubriacarsi tutto
il giorno possono permetterselo pochi scrittori affermati, non certo chi deve
imparare e cerca di farsi strada. Quasi una vita monastica che, a ben vedere,
si addice al mio carattere: per anni ho messo la sveglia due ore prima tutti i
giorni per scrivere prima di fare qualsiasi altro lavoro.
Lavorare per vivere ma anche lavorare politicamente.
Certo, nella seconda metà degli novanta sono stato un assiduo
frequentatore dei centri sociali milanesi, in particolare del Bulk, allora
sembrava un panorama ancora stimolante o forse semplicemente avevo vent’anni ma
la mia prima vera formazione politica avviene presso la Scuola Civica di
Cinema, un’istituzione storica milanese fondata negli anni cinquanta, dove ho
avuto modo di incontrare persone determinanti nel mio cammino come la regista
Marina Spada e Marco Philopat. Più in generale il corpo docente era formato da
superstiti, sovversivi vari e reduci i quali mi permettevano di conoscere le
storie milanesi che non avrei potuto sapere da mio padre immigrato da poco.
Mentre la città degli anni settanta e ottanta me la hanno raccontata loro. E
per me è stato un po’ aprire gli occhi. E poi la Scighera, il circolo
casualmente vicino a casa mia in Bovisa che è stato l’approdo che cercavo,
un’osteria ma anche un luogo culturale dove esprimermi. Un amore a prima vista
che mi ha trasformato per alcuni anni in oste. Tre anni molto intensi nei quali
ho dedicato anima e corpo. Mi diverte ricordare che in quel luogo io abbia
intervistato Paolo Finzi e giocato a carte con Aurora Failla, le colonne di
A Rivista. Oggi molti si stupiscono della mia capacità a stare sul palco a
condurre serate e interviste ma sarebbe troppo lunga spiegargli che gavetta
abbiamo fatto assieme alla Scighera. E sempre assieme siamo stati tra i
fondatori della Trattoria Popolare dove ci troviamo in questo momento, come
vedi le nostre strade continuano ad intrecciarsi.
E’ vero. Benché tu ora abbia una notorietà impressionante, mi sembra
che non ti sia fatto snaturare ma, al contrario, la stai usando per raggiungere
nuovi obiettivi con al centro la montagna. Hai messo in piedi da zero un
festival di grande successo dal nome indicativo: ‘Il richiamo della foresta’ a
Brusson dove vivi e nel futuro prossimo ti lancerai in una nuova sfida che ti
chiedo di anticipare.
La mia necessità di lasciare la città e andare in montagna è partita da un
bisogno privato ma in breve ho scoperto che è una scelta che appartiene a molti
della mia generazione. Così ho iniziato a documentarmi facendo un viaggio in
Trentino (zona tradizionalmente più innovativa rispetto alle Alpi Occidentali)
andando a incontrare i ‘nuovi montanari’. Persone che sono andate a vivere in
montagna portandosi però un bagaglio culturale cittadino, che hanno viaggiato e
magari studiato all’estero ma anche portatori di una carica utopica e
ideologica molto forte. Insomma gente che non è andata in montagna solo per
pascolare le capre ma con un’idea più strutturata di ritorno alla montagna.
Un’esperienza condivisa da molti. Così e nata l’idea di questo festival che
raccogliesse tutte queste esperienze e declinasse questo ritorno in tutte le
accezioni possibili. Dal ritorno di chi va a coltivare le patate ma anche il
ritorno di uno scrittore. Il ritorno di un pittore o di un musicista che vuole
fare un concerto in mezzo a un bosco. Anche perché il dialogo tra le arti e la
vita pratica di un contadino a me sembra molto fruttuoso. Io non uso il
termine ‘Natura’ che è una parola dei cittadini. Nessun abitante di montagna
usa quella parola. Anche perché natura per un montanaro vuol dire nomi
specifici: l’orto sotto casa, l’alpeggio, il torrente, il bosco. E poi la
montagna è fatta da paesaggi selvaggi e da paesaggi densamente antropizzati e per
un cittadino è sempre ‘natura’ così come andare al Parco Sempione di Milano. Io
preferisco parlare di paesaggio montano, di entrarci e cercare di raccontarlo
nei miei libri. Per quanto riguarda il festival sono partito dall’idea che il
coltivatore di patate ha bisogno di uno scrittore che canti la sua vita, che la
renda poetica che ne faccia letteratura. Queste due realtà non sono così
distanti come si potrebbe credere. Anche perché spesso il nuovo montanaro
arriva da una grande città e quello che gli manca tremendamente è proprio la
musica, la letteratura, la socialità, situazioni che non trova in montagna.
L’idea di portare delle cose buone dalla città in montagna e alla base di
questo festival.
Per quanto riguarda il futuro, abbiamo fondato l’associazione ‘Gli
urogalli’ che aprirà un rifugio nel 2019. Un progetto che vorremmo a metà
strada tra un classico rifugio alpino e un centro culturale, diciamo un circolo
culturale di montagna. Per intenderci uno sviluppo della Scighera e della
Trattoria Popolare a duemila metri. Di certo avremo anche un bancone su cui ti
inviterò a posare i gomiti, e una biblioteca dove A sarà in bella mostra.