venerdì 17 novembre 2017

UNA CHIACCHIERATA CON DINO

(Ecco l'unica intervista mia che troverete mai su questo blog: ci sono molto legato perché me l'ha fatta il mio amico Dino, e perché è uscita questo mese sulla gloriosa "A Rivista Anarchica". Grazie a Dino Taddei, Paolo Finzi e tutta la redazione. Viva l'Idea!)

Le interviste vere alle volte assomigliano a un duello a colpi di fioretto e, talvolta, di sciabola. Si attacca e ci si difende, si omettono e si forzano le parole, non sempre chi attacca è l’intervistatore e non sempre l’intervistato subisce. Ma quando, come nel caso mio e di Paolo Cognetti, siamo stati spadaccini con la stessa casacca facendo decine di interviste, radiospettacoli e serate con ospite assieme, risulta difficile mettere in campo le schermaglie. Meglio trovarsi nei nostri quartieri milanesi, in Trattoria Popolare con un bel mezzo  litro, appoggiati al bancone che Paolo costruì qualche anno fa, saltando i preamboli con il suo cane Lucky tra le gambe. D’altronde cosa dire di Cognetti? Uno scrittore divenuto un caso editoriale, sia per copie vendute del suo ultimo libro Le otto montagne (Einaudi 2016) in Italia ma, cosa ancor più strabiliante, tradotto in 34 lingue e pubblicato in infiniti Paesi sparsi in tutti i continenti. Un versante internazionale molto raro per gli scrittori di lingua italiana e che a me francamente mette di buon umore pensando al libro di Paolo tradotto in norvegese o in mandarino. Ma Cognetti ha anche un’altra qualità che non ha mai nascosto e che compare nei suoi romanzi: la sua vicinanza al pensiero e all’azione anarchica.
Caro Paolo, giacché questa è un’intervista per A, passerei di lato le questioni squisitamente letterarie e punterei agli aspetti più politici della tua opera. Iniziamo con un tuo gesto di alto valore simbolico e comunicativo: alla finale del Premio Strega (che hai vinto) ti sei presentato con una cravatta alla Lavallière.  Avrebbe dovuto suscitare quantomeno la curiosità della presentatrice e invece niente…
E’ vero, è stata ignorata completamente, addirittura alcuni giornali la mattina dopo hanno commentato: “Aveva un fiocco da scolaretto” per cui più che di rimozione, si tratta di aver dimenticato il significato… Due o tre giornalisti me l’hanno chiesto e io ho provato a spiegarglielo ma ho visto in loro un grande stupore, addirittura la giornalista di Repubblica mi ha chiesto sconcertata: “Cosa intendi per anarchia?” a quel punto ho realizzato che il vero problema è riprendere dall’inizio i concetti perché si sono persi.
Forse perché da un romanziere non ci si attende che abbia delle idee politiche esplicite?
Oggi in Italia un po’ è così ma non lo è sempre stato, penso alla grande generazione di scrittori usciti dalla Resistenza e alla mia casa editrice in particolare, l’Einaudi degli anni ‘50-’60 in cui, tutti insieme, si incontravano Pavese, Calvino, Fenoglio, Levi, la Ginzburg, Rigoni Stern… Scrittori che hanno sempre espresso con forza le loro idee politiche.
Pertanto quella cravatta è stata una provocazione?
Io non la sento così. E’ stata una scelta meditata pensando che alle foto che sarebbero girate e alle migliaia di persone che le avrebbero viste. Sento molto la responsabilità di veicolare, in questo momento di forte esposizione mediatica,  alcune idee. Insomma, vuoi dire un po’ di cazzi tuoi, oppure: “Federica ti amo!” o, al contrario, portare due simboli che significano molto per me: il fiocco anarchico e un rametto di abete rosso nel taschino.  L’anarchia e la montagna.
Questa vicenda ci riporta direttamente ai tuoi libri, nei quali compaiono costantemente idee e pensatori anarchici, addirittura nel romanzo Sofia si veste sempre di nero (Minimum Fax, 2012) dedichi un capitolo intero dal titolo: Quando l’Anarchia verrà a Leo, personaggio immerso tra le periferie, i centri sociali e i cortei, profondo conoscitore di Kropotkin, del pirata Misson, di Hakim Bey e le TAZ. Ma poi in altri tuoi romanzi compare un filone più specificatamente ecologico: Thoreau, Reclus e, ne Le otto montagne , Murray Bookchin e l’ecologia sociale. Considerando che non scrivi saggi ma romanzi, non mi sembra poco, e poi questi ultimi pensatori sembrano appartenere  alle tue scelte di vita…
Forse perché ho vissuto a Milano dove ho cercato di lavorare, di portare avanti dei progetti ma a un certo punto ho capito che la città non era adatta a me o io a lei, non mi stimolava più e quindi andare in montagna è stata una svolta consapevole, ora è nelle montagne valdostane che vivo e progetto iniziative. Anche perché non credo che andare in montagna sia ritirarsi dalla vita pubblica, dall’impegno, dalle cose che cerchi di fare nel mondo. Non è il luogo dell’eremita ma dove io mi trovo meglio e più adatto a lavorare politicamente. Naturalmente non sono situazioni che ho inventato io ma ad esempio se leggi Thoreau, scopri una persona evidentemente inadatta ad una società urbana. Le sue energie danno il meglio in un altro luogo. Il primo esperimento di Thoreau non è dettato dalla filosofia , dall’estetica o dalla poesia ma la motivazione è economica: un ventisettenne stanco di lavorare nella fabbrica di matite del padre, molto in conflitto con chi gli è attorno che pensa: “vediamo come me la cavo andando a vivere nel bosco” si fa prestare un terreno, compra una baracca da dei contadini, la smonta e se la rimonta. La sfida di questo esperimento era dimostrare di riuscire a vivere senza (o con pochissimi) soldi, unica strada per liberarsi dal lavoro salariato e dal modello di vita che ne consegue. E per me è stata una grande lezione: il bisogno di spazio viene dopo. In montagna il rapporto con i soldi è più elastico che in città. Io non sono nato in montagna, non sono Rigoni Stern o Corona che hanno raccontato dei loro luoghi, la loro civiltà, il loro paese, la loro umanità. Io sono un nuovo montanaro per scelta, un immigrato. Per questo ho amato molto anche New York perché è la città di chi l’ha conquistata, di chi ha desiderato andarci per diventare newyorkese, lottando per andare là. Appartiene molto a me e alla mia famiglia l’idea che un posto non è dato ma lo si sceglie e conquista. Bisogna provare a trovarlo almeno.
Ma più in generale la cultura americana e i suoi scrittori, mi sembrano che siano un punto saldo di riferimento della tua opera, così come le radici profonde alle quali hai dedicato anche un bellissimo documentario su la Piave (fiume chiamato al femminile almeno fino agli inizi del Novecento). Un lungo fluire da quelle montagne venete ancestrali, alle coste americane.
Già, l’America dei profughi, di chi scappava dalla povertà o dalla galera, di chi era perseguitato. Di chi in definitiva se l’è inventata e non certo l’America attuale. E poi c’è l’America della frontiera, un mito al quale sono molto legato, questo conflitto dialettico tra Est e Ovest. Tra un Est civile fatto di città ma anche di corruzione, un mondo nel quale è facile sentirsi sconfitti, traditi, ma si ha sempre l’opportunità di partire verso l’Ovest anche in senso figurato. Può essere imbarcarsi su una baleniera come per Melville o partire verso il grande Nord come per Jack London. Una frontiera dalla quale si può ricominciare. Questo secondo me è il cuore pulsante del mito americano. In fondo le Alpi sono un West che mi sono trovato sotto casa. Naturalmente oggi il mito non può essere la California ma il Nord, l’Alaska è l’ultima frontiera americana. Di Nord si parla anche in Into the Wild di Sean Penn, un film che per me è stato veramente importante sia per il contenuto sia per la mia vicinanza al protagonista. Provai una profonda commozione nel riconoscermi in Cristopher McCandless: un bravo ragazzo, un ottimo studente con un padre molto prepotente e volitivo ma che a un certo punto rompe tutto questo per cercare la sua strada. In fondo anch’io non sono stato un adolescente ribelle, un ragazzo di strada, al contrario sono stato un ottimo studente bravo in tutto sino a quando ho deciso di emanciparmi.
Per quanto riguarda le mie radici familiari, più che il Veneto di mia madre, sento molto di più quelle paterne. Forse per questa nostra tradizione che ogni figlio se ne va da qualche altra parte. Una storia che risale almeno a mio trisnonno barese che ottenne una cattedra a Torino, divenendo maestro di Luigi Einaudi. E poi ogni generazione continuò la trasmigrazione, da Torino a Mantova, e poi Parma, il Veneto e infine Milano.  Il vero lascito familiare è questa consapevolezza che ti devi cercare un posto nel mondo e non è detto che sia quello dove sei nato.
Consapevolezza che ti spinge a conquistare le cose con determinazione, anche non in senso topografico: se mai ce ne fosse bisogno vorrei che tu spendessi due parole sulla fatica di essere scrittore. Sfatare il mito del genio maledetto e che il tuo grande successo editoriale è frutto di lavoro.
Certo. Mi è passato velocemente il mito dello scrittore ubriacone che produce solo di notte in preda all’ispirazione: per intenderci come in un’intervista di Fernanda Pivano a Bukowski (Quel che importa è grattarmi sotto le ascelle, Feltrinelli) nella quale lo scrittore si dileguava su per una scala con due bottiglie di Valpolicella (il suo vino preferito) dichiarando che avrebbe scritto sino a quando durava il vino. Anch’io fino a vent’anni ho creduto a queste cose. Poi una svolta è avvenuta andando in America ad intervistare per un documentario diversi scrittori americani e tutti mi ripetevano la loro grande disciplina, della scrittura come lavoro che se non la vedevi sotto questa luce non saresti andato molto lontano, l’ubriacarsi tutto il giorno possono permetterselo pochi scrittori affermati, non certo chi deve imparare e cerca di farsi strada. Quasi una vita monastica che, a ben vedere, si addice al mio carattere: per anni ho messo la sveglia due ore prima tutti i giorni per scrivere prima di fare qualsiasi altro lavoro.
Lavorare per vivere ma anche lavorare politicamente.
Certo, nella seconda metà degli novanta sono stato un assiduo frequentatore dei centri sociali milanesi, in particolare del Bulk, allora sembrava un panorama ancora stimolante o forse semplicemente avevo vent’anni ma la mia prima vera formazione politica avviene presso la Scuola Civica di Cinema, un’istituzione storica milanese fondata negli anni cinquanta, dove ho avuto modo di incontrare persone determinanti nel mio cammino come la regista Marina Spada e Marco Philopat. Più in generale il corpo docente era formato da superstiti, sovversivi vari e reduci i quali mi permettevano di conoscere le storie milanesi che non avrei potuto sapere da mio padre immigrato da poco. Mentre la città degli anni settanta e ottanta me la hanno raccontata loro. E per me è stato un po’ aprire gli occhi. E poi la Scighera, il circolo casualmente vicino a casa mia in Bovisa che è stato l’approdo che cercavo, un’osteria ma anche un luogo culturale dove esprimermi. Un amore a prima vista che mi ha trasformato per alcuni anni in oste. Tre anni molto intensi nei quali ho dedicato anima e corpo. Mi diverte ricordare che in quel luogo io abbia intervistato Paolo Finzi e giocato a carte con Aurora Failla, le colonne di A Rivista. Oggi molti si stupiscono della mia capacità a stare sul palco a condurre serate e interviste ma sarebbe troppo lunga spiegargli che gavetta abbiamo fatto assieme alla Scighera. E sempre assieme siamo stati tra i fondatori della Trattoria Popolare dove ci troviamo in questo momento, come vedi le nostre strade continuano ad intrecciarsi.
E’ vero. Benché tu ora abbia una notorietà impressionante, mi sembra che non ti sia fatto snaturare ma, al contrario, la stai usando per raggiungere nuovi obiettivi con al centro la montagna. Hai messo in piedi da zero un festival di grande successo dal nome indicativo: ‘Il richiamo della foresta’ a Brusson dove vivi e nel futuro prossimo ti lancerai in una nuova sfida che ti chiedo di anticipare.
La mia necessità di lasciare la città e andare in montagna è partita da un bisogno privato ma in breve ho scoperto che è una scelta che appartiene a molti della mia generazione. Così ho iniziato a documentarmi facendo un viaggio in Trentino (zona tradizionalmente più innovativa rispetto alle Alpi Occidentali) andando a incontrare i ‘nuovi montanari’. Persone che sono andate a vivere in montagna portandosi però un bagaglio culturale cittadino, che hanno viaggiato e magari studiato all’estero ma anche portatori di una carica utopica e ideologica molto forte. Insomma gente che non è andata in montagna solo per pascolare le capre ma con un’idea più strutturata di ritorno alla montagna. Un’esperienza condivisa da molti. Così e nata l’idea di questo festival che raccogliesse tutte queste esperienze e declinasse questo ritorno in tutte le accezioni possibili. Dal ritorno di chi va a coltivare le patate ma anche il ritorno di uno scrittore. Il ritorno di un pittore o di un musicista che vuole fare un concerto in mezzo a un bosco. Anche perché il dialogo tra le arti e la vita pratica di un contadino a me sembra molto fruttuoso.  Io non uso il termine ‘Natura’ che è una parola dei cittadini. Nessun abitante di montagna usa quella parola. Anche perché natura per un montanaro vuol dire nomi specifici: l’orto sotto casa, l’alpeggio, il torrente, il bosco.  E poi la montagna è fatta da paesaggi selvaggi e da paesaggi densamente antropizzati e per un cittadino è sempre ‘natura’ così come andare al Parco Sempione di Milano. Io preferisco parlare di paesaggio montano, di entrarci e cercare di raccontarlo nei miei libri. Per quanto riguarda il festival sono partito dall’idea che il coltivatore di patate ha bisogno di uno scrittore che canti la sua vita, che la renda poetica che ne faccia letteratura. Queste due realtà non sono così distanti come si potrebbe credere. Anche perché spesso il nuovo montanaro arriva da una grande città e quello che gli manca tremendamente è proprio la musica, la letteratura, la socialità, situazioni che non trova in montagna. L’idea di portare delle cose buone dalla città in montagna e alla base di questo festival.
Per quanto riguarda il futuro, abbiamo fondato l’associazione ‘Gli urogalli’ che aprirà un rifugio nel 2019. Un progetto che vorremmo a metà strada tra un classico rifugio alpino e un centro culturale, diciamo un circolo culturale di montagna. Per intenderci uno sviluppo della Scighera e della Trattoria Popolare a duemila metri. Di certo avremo anche un bancone su cui ti inviterò a posare i gomiti, e una biblioteca dove A sarà in bella mostra.

2 commenti:

  1. Per quanto mi riguarda, io credo che natura è tutto quello che non è umano, quello che non potremo mai possedere e che possiamo solo perdere.
    Natura è forza sovrumana, eterna nel suo ciclico mutare, che richiede conoscenza, attenzione e rispetto.
    Inoltre la natura è da sempre ispiratrice del senso del divino, prima che questo diventi causa di divisione. Anche a sedere su una panchina di Parco Sempione.
    Un saluto

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  2. Caro Paolo,
    leggo adesso questo articolo di mesi fa.
    Mi ha fatto risuonare due corde che ti lascio.

    * lo scrivere
    Sì, si legge dagli scritti tuoi e dall'evoluzione come tu trascorra tempo a tirar fuori (levigare? boh! nel senso di fiume che leviga le pietre, nel senso di togliere il superfluo senza cesellare) e render come vuoi gli scritti, soprattutto dall'evoluzione della tua narrativa.

    * parole-città-Montagna
    Sì rendi bene l'idea (se ho ben capito): il tuo essere immigrato di Montagna partendo dalla pianura permette di dar spazio alle parole di città per trasmettere messaggi/situazioni/storie che altrimenti (fossi rimasto di città e punto) non verrebbero così fuori. Come dire? Chi 'di città' con il tuo linguaggio partito da lì può comprendere meglio la parte 'di Montagna', così diversa nell'esprimersi, così più piena di 'silenzi armonici', più 'avara di parole' stesse, con 'codici' diversi...
    Sarà questa una declinazione del tuo dàimon (concetto secondo Hillman): dare parole e creare 'ponti'?

    Buon risveglio e preparativi.
    Serena

    PS invece con le parole sono pessima e mi spiace.
    Pace.

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