(questo pezzo è uscito su Robinson)
Ci dev'essere un'anima femminile nel racconto breve, in quest'arte di collezionare frammenti di esistenze, setacciare rivolte e silenziose illuminazioni, registrare sulla pagina la musica della vita quotidiana. O canticchiarla facendo altro, avrebbe detto Grace Paley, così disposta a lasciarsi distrarre dal mondo da avere prodotto appena tre raccolte di racconti in trent'anni di lavoro: Piccoli contrattempi del vivere (1959), Enormi cambiamenti all'ultimo momento (1974), Più tardi nel pomeriggio (1985), che oggi l'editore Sur ripubblica in un unico volume (Tutti i racconti, nella nuova traduzione di Isabella Zani). Quarantacinque piccole storie che fanno brillare il nome di Grace Paley nel firmamento americano del Novecento: per usare un'immagine di Raymond Carver, che della materia se ne intendeva, ecco una delle stelle con cui orientarsi quando si leggono racconti, o si cerca di imparare a scriverne.
Quelle storie sono un tutt'uno con l'epopea di New York nel Novecento. Figlia di ebrei ucraini fuggiti dalla Russia all'epoca degli zar, Grace era nata nel Bronx nel 1922, ovvero quando la città si avviava a diventare, senza che nessuno l'avesse programmato o previsto, il più grande esperimento di convivenza sociale del secolo. A New York allora vivevano sette milioni di persone: due di ebrei dell'Europa Orientale, uno di italiani, mezzo di afroamericani; tanti altri stavano per arrivare dall'Asia e dall'America latina. Nei racconti di Grace Paley furono voci, schiamazzi, litigi, chiacchiere, risate, grida. Il Bronx, Brooklyn, il Lower East Side risuonavano di lingue e dialetti, le radici si smarrivano o forse si intrecciavano, i figli propri si mischiavano con quelli altrui, il vecchio mondo sopravviveva nei riti e nella nostalgia. In un racconto di una sola pagina, Madre, i genitori di Grace ascoltano Mozart in salotto, dentro casa c'è la vecchia Russia polverosa, per strada New York brulica di vita: lui, medico, ha ricevuto pazienti tutto il giorno; lei ha appena lasciato il negozio per la cucina. Canta, le dice lui, una volta cantavi così bene. Lei non risponde. Sembrano smarriti e un po' stanchi. Ma dove siamo? Dopo trent'anni a lui pare ancora di essere appena sceso dalla nave, di avere appena ridato l'esame di anatomia in inglese. Lei è preoccupata per la figlia adolescente, testarda, infatuata di idee rivoluzionarie, una ragazza che torna tardi la sera, ormai così americana. Ci può stare tutto questo in un racconto di una sola pagina? Sì, nelle mani di un artista.
Le origini, gli ambienti, l'umanità che li abita fecero rientrare Grace Paley, all'inizio, in una corrente che a New York nasceva nel secondo dopoguerra, quella della letteratura ebraico-americana. Negli stessi anni esordivano Bernard Malamud, Saul Bellow, Philip Roth, il lettore americano familiarizzava con le massime talmudiche e la cucina kosher, in città lo yiddish era la seconda lingua dopo l'inglese. Grace però non intendeva proseguire su quella strada. Poco più che ragazza si era sposata ed era andata a vivere al Greenwich Village, quartiere di artisti, scrittori, intellettuali, culla della Beat Generation; aveva fatto due figli ma poi il marito se n'era andato, lei era rimasta sola con i bambini. Intorno, ancora una volta, la città ribolliva. La strada chiamava e restare in casa non era proprio possibile, nemmeno se eri una giovane madre divorziata e lavoratrice. Al Village fin dagli anni Cinquanta si era formato un comitato in difesa del parco di Washington Square, la piazza che è il cuore del quartiere e che un'autostrada urbana avrebbe dovuto sventrare: per la prima volta nella storia newyorkese un gruppo di cittadini, principalmente donne, si opponeva a un progetto di lavori pubblici, e fece tanto di quel rumore che finì per averla vinta. Negli anni Sessanta un movimento sempre più grande si formò intorno a quel nucleo originario: per il diritto alla casa, alla scuola, agli spazi di socialità urbana, e poi contro la guerra in Vietnam e l'uso dell'energia atomica. Grace in quel movimento fu sempre in prima fila, tenne discorsi e scrisse manifesti, fu arrestata più volte. Faith Darwin, il suo alter ego letterario, in un racconto è Faith sull'albero: proprio un albero del parco di Washington Square, arrampicata lassù mentre osserva le donne, le sue amiche, i figli che sono figli di tutte, bambini che giocano tra madri che chiacchierano tranquille, e lei sola è lassù a fare la sentinella, angosciata da ciò che sta per capitare. Si sentiva spesso sull'orlo di una tragedia storica, un disastro ecologico, una fine del mondo; chissà se in quell'angoscia c'era anche un ebraismo risvegliato da ciò che era successo in Europa.
Ma non le interessò mai definirsi ebrea, piuttosto newyorkese, e donna più che scrittrice. E femminista, ambientalista, anti-militarista, tutte declinazioni della stessa non-violenza che fu sempre il suo credo.
Negli anni Ottanta la comunità letteraria cominciò a tributarle il giusto riconoscimento. Grace intanto si era risposata con un compagno di penna e di battaglie che sarebbe restato con lei fino alla fine, giunta in tarda età, nel 2007. Viveva ancora al Village e ancora distribuiva volantini all'angolo della sua strada. Smise di scrivere racconti e si dedicò ad altri amori, la poesia e l'insegnamento: una sua studentessa fu A.M. Homes che la ricorda come maestra di rigore morale, attenzione verso l'altro, responsabilità, ascolto. Una donna per cui la scrittura veniva dopo le persone e correva dietro alla vita, una newyorkese per cui il richiamo del mondo là fuori era sempre stato troppo potente per starsene sola a casa a scrivere storie.
mercoledì 28 novembre 2018
martedì 6 novembre 2018
SENZA MAI ARRIVARE IN CIMA
Da qualche anno i miei libri preferiti sono libri di viaggio. Le vite dei lettori hanno stagioni, e a un certo punto della mia l'interesse si è spostato dalle storie allo sguardo, alla scrittura intesa come esplorazione di sé e del mondo. La narrativa di viaggio è un vecchio genere, forse è il viaggio stesso ad appartenere a epoche più romantiche della nostra, e io sono legato ad autori per cui viaggiare era un'arte e una filosofia, qualche volta un mestiere, sempre un modo di vivere. Della scrittura di viaggio, mi piace che nasca da un'attentissima osservazione. Ma l'osservazione non basta, per farne racconto il paesaggio deve dialogare con chi lo attraversa, diventare specchio di un paesaggio interiore. Direi che i grandi racconti di viaggio mettono in relazione un luogo e una personalità memorabili. I miei preferiti: Festa mobile di Hemingway e La mia Africa di Karen Blixen, In Patagonia di Chatwin e Nelle foreste siberiane di Sylvain Tesson, Il leopardo delle nevi di Peter Matthiessen e Un indovino mi disse di Tiziano Terzani. Gli ultimi due mi sono molto cari da quando la ricerca del viaggio mi ha portato in Himalaya. “Per tornare viaggiatori bisognerebbe ritornare a essere come gli unici veri viaggiatori”, disse Terzani: “i pellegrini.” Ho trovato il mio pellegrinaggio e il racconto che ne ho scritto intende essere, anche, un dialogo con Tiziano, che considero un maestro dell'arte di viaggiare, di cercare, di osservare e voler capire, di interrogarsi, di amare il mondo e la sua varietà, di rendere la scrittura uno strumento di tutto questo. Il libro si intitola Senza mai arrivare in cima ed esce oggi. Parla di quel che cerchiamo quando andiamo in montagna, e di qualche altra cosa. Il mio amico Nicola è riuscito a essere allo stesso tempo un personaggio del libro, il suo destinatario e l'autore della copertina; sono contento che sia, anche, un libro sull'amicizia.
Infine, è un libro che aiuta delle persone. Con i guadagni sostengo due associazioni che ho conosciuto in Nepal: Sanonani House e CASANepal, due Onlus italiane che operano a Katmandu, case-famiglia per bambini e donne vittime di violenza. Quel piccolo paese ai piedi dell'Himalaya mi ha dato tanto, nella vita e nella scrittura, e in questo modo spero di potergli ridare qualcosa indietro.
“Tashi delek” è il saluto tibetano, vuol dire più o meno “Buona fortuna”, e in Nepal lo si sente quando, superata una certa quota, si entra nel mondo dell'alta montagna e anche l'umanità cambia. Cambiano i volti, gli abiti, cambia la lingua, compaiono gli yak al pascolo e i segni di devozione che si agitano al vento. Il “Namasté” delle pianure e delle valli cede il passo al saluto dei montanari: lassù è ormai Tibet, il regno perduto. Dunque, tashi delek.
Infine, è un libro che aiuta delle persone. Con i guadagni sostengo due associazioni che ho conosciuto in Nepal: Sanonani House e CASANepal, due Onlus italiane che operano a Katmandu, case-famiglia per bambini e donne vittime di violenza. Quel piccolo paese ai piedi dell'Himalaya mi ha dato tanto, nella vita e nella scrittura, e in questo modo spero di potergli ridare qualcosa indietro.
“Tashi delek” è il saluto tibetano, vuol dire più o meno “Buona fortuna”, e in Nepal lo si sente quando, superata una certa quota, si entra nel mondo dell'alta montagna e anche l'umanità cambia. Cambiano i volti, gli abiti, cambia la lingua, compaiono gli yak al pascolo e i segni di devozione che si agitano al vento. Il “Namasté” delle pianure e delle valli cede il passo al saluto dei montanari: lassù è ormai Tibet, il regno perduto. Dunque, tashi delek.
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