martedì 19 marzo 2019

FRONTIERE

(questo pezzo è uscito sulla Repubblica)

Non so se esista al mondo una frontiera più insanguinata delle Alpi. Anche in quest'angolo di nord-ovest, dove la Grande Guerra non è passata, i segni di altre guerre sono ovunque, confusi nel paesaggio ai segni del lavoro umano: ai muretti a secco, ai terrazzamenti, ai canali d'irrigazione che ora il bosco si sta riprendendo insieme alle vecchie ferite. A volte saltano fuori all'improvviso, come la palla di piombo che un amico ha trovato abbattendo un larice, ben conficcata nel tronco. Aveva forse trecento anni, quell'albero, e il mio amico ha bestemmiato quando ha sentito i denti della motosega mordere il metallo. Prima ha pensato a un chiodo, poi ha estratto dal legno una palla da moschetto che qualche soldato deve aver sparato nel corso dell'Ottocento. È strano immaginare i soldati tra questi boschi che ora sono delle lepri, delle volpi, dei caprioli, e da poco anche dei lupi. Come è strano immaginare il motivo per cui il lago lassù, che a 2500 metri riflette soltanto il cielo, è chiamato Lago della Battaglia, benché nessuno sappia più quale battaglia fosse. Ancora più in alto, verso i 3000, un giorno camminavo come piace a me, fuori dai sentieri, quando nel mezzo della pietraia ho trovato una gavetta di ferro arrugginito, con tanto di numero di matricola, tra gli ultimi nevai di luglio e le rocce venate di licheni. Quella era chiaramente una reliquia del Novecento. Sono state tutte guerre diverse, secoli diversi, che ora si confondono tra loro nel silenzio della montagna abbandonata. Non è un male che l'uomo con le sue guerre se ne sia andato altrove. Ora lassù è tutto delle aquile, dei camosci, degli stambecchi, delle marmotte e degli ermellini, il tronco del vecchio larice fa da fontana davanti a casa mia e la gavetta è un vaso di fiori appeso al balcone. C'è un passo, poco oltre il villaggio dove abitiamo, che oggi separa soltanto due valli, due pascoli, due alpeggi, due fianchi della stessa montagna, ma per molto tempo ha separato due Stati (o Regni, o Imperi, o come si chiamavano allora). Abbiamo trovato in una vecchia cassapanca un documento in cui si stabiliva quanti soldati dovessero stare di guardia su quello e gli altri punti di transito dello spartiacque. Due o tre soldati sui passi più impervi, venti o trenta su quelli più battuti. Sul passo in questione ci sono una cappella e un muretto a secco, e chi ci sale oggi difficilmente immagina che quella cappella era un posto di guardia, quel muretto una frontiera. A guardar bene si distingue dai muretti che dividono i pascoli perché la sua faccia superiore non è in piano, è un po' inclinata verso valle. L'inclinazione serviva a sparare. Oltre il passo, scendendo di qualche metro sull'altro versante, nel prato dove le mucche pascolano e corrono le marmotte c'è un rudere che sembrerebbe una vecchia stalla, ma anche lì la forma è un po' strana, e i pastori lo chiamano ancora “l'ospedale di Napoleone”. Forse non di Napoleone in persona, ma certo di qualche suo soldato che attaccò e conquistò quel passo nel maggio del 1800, mentre gli austriaci dal muretto sparavano. A pochi passi dalla cappella c'è una madonnina, sotto la madonnina una targa che ricorda il passaggio non di eserciti, ma di uno scrittore: Lev Tolstoj che qui transitò il 20 giugno 1857, annotando sul suo diario “aria pura e rarefatta, suoni chiari sui monti, odori di segala e melissa, un ragazzo canta”. Tanti altri che nessuno ricorda sono passati per le transumanze, per andare a lavorare da una valle all'altra, per emigrare in Francia o in Svizzera e per tornare a casa. Qualcuno, chissà, sarà passato per amore; qualcun altro per salvarsi la vita. Una famiglia di ebrei torinesi in fuga, nell'inverno del '44, salì al villaggio con l'idea di valicare poi quel passo e proseguire verso la Svizzera: un uomo, una donna e una bambina che il nonno del mio amico ospitò per qualche giorno nella sua stalla. Li teneva nascosti in attesa di qualcosa o qualcuno, forse una guida, un passeur, o una notizia dalla valle, o uno spiraglio di tempo buono in quell'inverno così rigido. I tre non erano preparati alla montagna, non immaginavano tanta neve. Il passo era impraticabile. Quella bambina che adesso è un'anziana signora ricorda ancora il buio, la stalla, i volti scuri dei montanari, l'altra bambina con cui aveva giocato per un po', la zia del mio amico. Alla fine rinunciarono, furono portati giù per tentare da un'altra parte, non so più come riuscirono a mettersi in salvo. Da quel passo se ne vede un altro che sta proprio di fronte, e che è il luogo dove Primo Levi fu arrestato quello stesso inverno. Era il 13 dicembre del '43. Primo amava queste montagne: quassù assaggiò la “carne dell'orso” col suo amico Sandro, che è “il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino”, quassù fece per tre mesi il partigiano e fu catturato in un rastrellamento, quassù continuò a tornare anche dopo il lager. Appena oltre il passo di Primo Levi si vede la piana d'Aosta dove Mario Rigoni Stern fece la scuola d'alpino e da dove nel giugno del '40 fu spedito al fronte, per il vigliacco attacco alla Francia già sconfitta dai tedeschi. Scendendo oltre il Piccolo San Bernardo si accorse di trovarsi sì oltre la frontiera, in un altro paese, sotto un'altra bandiera, ma sulla stessa montagna. “Dall'orlo di un bosco vidi un rustico fabbricato d'alpeggio, ma non c'erano mandrie né persone. La porta era spalancata, sul tavolo c'erano umili stoviglie sbeccate e i rimasugli di una fredda polenta; sul pavimento erano sparsi in disordine poveri capi di biancheria femminile. Provai vergogna verso chi aveva profanato quell'intimità, ma anche di me”. Avrebbe provato la stessa vergogna in Russia, andando a fare la guerra tra i contadini. Nei lunghi anni da soldato, e poi da prigioniero, Mario scoprì che al di là di ogni frontiera c'erano le stesse stalle, lo stesso bestiame, gli stessi mestieri, lo stesso attaccamento alla terra, lo stesso coraggio, la stessa dignità. “Al mondo siamo tutti paesani”, scrisse. Ora lassù è tutto delle aquile, dei camosci e dei lupi. Qua e là anche degli esseri umani che restano o che tornano. Quegli uomini avevano sognato l'Europa come fine delle guerre tra fratelli, perché sulle montagne scomparissero le frontiere e restassero le culture, i boschi e i campi che sono il rapporto dell'uomo con la terra, le vite delle persone. Non vanifichiamo le loro sofferenze, non offendiamo la loro memoria infrangendo quel sogno.


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