(A settant'anni dalla morte, minimum fax pubblica tutte le opere di Francis Scott Fitzgerald in una collana speciale. I libri sono ritradotti da scrittori italiani contemporanei: Giuseppe Culicchia, Francesco Pacifico, Tommaso Pincio e Veronica Raimo. Altri hanno scritto per il sito di minimum un ricordo personale, e questo è il mio. Tutti i contributi si trovano qui. Un'ultima cosa: sono libri bellissimi, meritano il vostro scaffale migliore.)
Per Parigi non ci sarà mai fine e i ricordi di chi ci ha vissuto differiscono tutti gli uni dagli altri. Si finiva sempre per tornarci, a Parigi, chiunque fossimo, comunque essa fosse cambiata o quali che fossero le difficoltà, o l’agio con la quale si poteva raggiungerla. Parigi ne valeva sempre la pena e qualunque dono tu le portassi ne ricevevi qualcosa in cambio. Ma questa era la Parigi dei bei tempi andati, quando eravamo molto poveri e molto felici.
(Ernest Hemingway, Festa mobile)
Si incontrarono al Dingo Bar di Montparnasse verso la fine di aprile del 1925, appena due settimane dopo l’uscita del Grande Gatsby in America. Per entrambi era stata una primavera fruttuosa. Il quartiere era il cuore degli anni folli, ci abitavano Picasso ed Ezra Pound, e il Dingo ospitava parecchi americani in esilio, perché stava aperto tutta la notte e si poteva parlare inglese. Seduti al banco bevvero champagne: Fitzgerald aveva ventotto anni e tre romanzi alle spalle, faceva vita da ricco tra la Costa Azzurra e Parigi, dilapidava in auto a noleggio e alberghi di lusso i compensi delle riviste newyorkesi; Hemingway non aveva un soldo, si era appena licenziato dal Toronto Star per dedicarsi a tempo pieno alla narrativa, saltava i pasti e metteva da parte i risparmi per fare un giro alle fiere di Spagna in estate. Erano entrambi sposati da poco. Ernest aveva un figlio piccolo, Scott una bambina. Che cosa ci facevano a Parigi? Più che altro, bevevano e scrivevano. Al di là dell’oceano, nel 1920, era cominciata l’epoca del Proibizionismo, e l’Europa si era trasformata di colpo in un immenso bar a basso costo.
Ernest amava il vino. Aveva imparato ad amarlo in Italia, nelle osterie di Milano e Padova, mentre la gamba guariva dalle schegge di granata del Piave e lo spirito da tutti i morti che gli era toccato vedere. Beveva vino in grandi quantità e quest’abitudine, oltre al mondo là fuori che lo chiamava a gran voce, gli rese la vita impossibile una volta tornato a casa, perciò a ventidue anni trovò lavoro in un giornale canadese e si fece spedire a Parigi come corrispondente. Al vino, Scott preferiva di gran lunga whisky e champagne. Preferiva le strade di New York ai boschi del Michigan, la compagnia di gente elegante a quella di soldati e contadini, le macchine decapottabili ai treni. E al posto di tutte le infermiere, cameriere, indiane mezzosangue e ragazze di campagna di Ernest, lui aveva amato una donna sola, Zelda, la sadica, rapace, sfrenata e bellissima Zelda. In vita sua era stato a letto soltanto con lei. Una donna in grado di respingerlo quando era al verde, riprenderlo appena diventato famoso, trascinarlo in una giostra di balli e sbornie che ormai vorticava da cinque anni, attraverso New York, l’Italia, Londra, le ville di Long Island e quelle di Antibes e Juan-Les-Pins. Anche Ernest aveva girato l’Europa, ma sulle carrozze di terza classe. Sua moglie Hadley veniva da Saint Louis, la prima delle quattro ragazze del Missouri che avrebbe sposato in quarant’anni. Quell’inverno, alla Gare de Lyon, qualcuno le aveva rubato una valigia preziosissima, che conteneva tutti i manoscritti del marito compreso un romanzo mai più ritrovato. All’inizio era sembrata una tragedia, poi si sarebbe rivelata una fortuna. Ogni aspirante scrittore dovrebbe essere costretto, in qualche punto del suo apprendistato, a ricominciare da zero. Hemingway stava ricominciando da zero. Fitzgerald, al contrario, era sulla cresta dell’onda, anche se per soddisfare Zelda viaggiava troppo, spendeva troppo, beveva troppo e scriveva troppo poco.
Che aspetto avevano? In Festa mobile Scott è descritto senza pietà. Parlava solo lui quella sera. Aveva letto dei racconti di Ernest e ne tesseva le lodi. Aveva una cravatta inglese, i riccioli biondi ben composti, un nasino raffinato e le gambe corte. Del suo viso colpiva la bocca: che era delicata e sinuosa e, scrive Hemingway, in una ragazza sarebbe stata una bellezza, in un uomo diventava oscena. Dell’aspetto di Ernest veniamo informati in un altro libro, l’Autobiografia di Alice Toklas, le memorie di Gertrude Stein: era un giovane gagliardo, dall’attenzione sempre viva, lo sguardo furfantesco e le movenze di uno di quei barcaioli del Mississippi descritti da Mark Twain. Uno etereo, femminile, aristocratico, l’altro virile e selvaggio, entrambi affamati di vita e lontani da casa e già posseduti dall’alcol: ecco i due protagonisti della generazione perduta al loro primo incontro.
Stavano inaugurando una strana amicizia crudele. Ernest di Scott avrebbe disprezzato la debolezza fisica, l’ipocondria, la scarsissima disciplina, la schiavitù nei confronti di Zelda, l’arrendevolezza verso la narrativa commerciale, l’enorme spreco di talento che tutto questo costituiva ai suoi occhi; Scott di Ernest avrebbe adorato il coraggio, i ricordi di guerra, l’abilità nella caccia e nel pugilato, l’esperienza delle donne e del mondo. Entrambi avrebbero riconosciuto nell’altro un grande scrittore. Fu Scott a raccomandare Ernest al suo editor, Max Perkins, con queste parole: “Volevo parlarti di un giovane scrittore di nome Ernest Hemingway, che vive a Parigi e ha un brillante futuro. Io non aspetterei un minuto a farmi vivo con lui. È la persona che mancava”. Da parte sua, una volta terminata la lettura del Grande Gatsby, Ernest si ricredette completamente su quel damerino incontrato al bar. Il romanzo lo lasciò talmente ammirato che “quando lo ebbi finito capii che qualsiasi cosa facesse Scott, o qualsiasi contegno tenesse, dovevo abituarmi a considerarlo come una malattia, e che dovevo prestare a Scott tutto l’aiuto possibile e cercare di essergli amico”. Anche se poi non andò così.
Quella sera del 1925 pensavano di avere una vita davanti, ma non era vero. Come scrittori, si trovavano nel loro momento di grazia. Scott aveva appena scritto il suo capolavoro, Ernest l’avrebbe fatto nei cinque anni successivi: i racconti, Fiesta, Addio alle armi. Tutti i libri venuti dopo sarebbero stati peggiori, per un motivo o per l’altro. O forse per l’unico motivo che né l’alcol, né le lodi del mondo hanno mai aiutato nessuno a scrivere meglio, anzi: entrambi avrebbero rimpianto gli anni di Parigi e il loro tocco magico giovanile.
Per questo mi piace fermarmi qui, al Dingo Bar, nell’aprile del 1925, l’istante dell’incontro immortalato come in un quadro di Degas o di Toulouse-Lautrec, uno di quegli interni parigini del secolo precedente. Si intitolerebbe Les écrivains de Montparnasse. Oppure: Jeunes hommes au café. Oppure: Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald scrivono la storia.
Non potevano sapere questa e tante altre cose, e nemmeno a chi dei due sarebbe toccato comporre l’epitaffio dell’altro: “Il suo talento era naturale come il disegno tracciato dalla polvere sulle ali di una farfalla. In un primo tempo non lo capì più di quanto lo capisca la farfalla, ed egli non se ne accorse neppure quando il disegno fu guastato e cancellato. Più tardi si rese conto delle sue ali danneggiate e comprese com’erano fatte e imparò a riflettere e non riuscì più a volare perché era scomparso l’amore per il volo e poté solo ricordarsi di quando volare non gli era costato il minimo sforzo”. Lo scrisse Ernest per Scott ma valeva per tutt’e due: per Fitzgerald, Hemingway e tutti quelli che una volta erano grandi scrittori, e poi sono diventati soltanto vecchie glorie dal talento perduto.