In principio fu Bukowski. Il mio incontro con Hank: Storie
di ordinaria follia, preso in prestito in
biblioteca e letto invece di studiare Foscolo e Leopardi. Sesso e whisky da
quattro soldi, stanze pulciose e corse dei cavalli al posto degli interminati
spazi, i sovrumani silenzi, il greco mar ove vergine nacque Venere: fu una folgorazione. Gli altri romanzi e racconti
seguirono in ordine sparso, nelle edizioni Guanda e Feltrinelli che possiedo
ancora - Donne, Factotum, Post Office, Confessioni di un codardo, il Taccuino di un vecchio sporcaccione. Era l’estate tra la quarta e la quinta superiore. In
settembre sperimentai per la prima volta quel senso di perdita che ogni lettore
conosce bene: quando esaurisci i libri del tuo scrittore preferito è come se
fosse morto un’altra volta, e solo a te, quel giorno, il mondo sembra un luogo
triste e più vuoto. Passai a John Fante proprio per alleviare il lutto. Fu Hank
in persona a indicarmi la strada. Era stato lui a riscoprire Fante, a salvarlo
dall’oblio e convincere il suo editore a ripubblicarlo. Mi buttai nelle
avventure di Arturo Bandini come se fosse un compagno di bevute del vecchio
Chinaski. La strada per Los Angeles, Sogni di Bunker Hill, Aspetta
primavera Bandini. Ora personaggi e titoli
si confondono nella mia memoria, e io provo per loro l’affetto riservato agli amori
giovanili. Avrei un po’ di timore a rileggerli, come a incontrare un certa
ragazza insieme al marito e ai figli. E se la trovassi sformata dalle
gravidanze, instupidita da biberon e pannolini? Magari invece scoprirei una
donna affascinante, e due scrittori del tutto nuovi: l’alcol e il sesso mi
colpirebbero meno, apprezzerei dettagli che ai tempi non notavo. Il rapporto di
Bandini con il padre. L’Abruzzo trapiantato in California. Chinaski dietro uno
sportello postale con i postumi della sbornia. I gesti delle ubriacone sfatte
raccattate al bar.
Poi venne Raymond Carver, ramo dello stesso albero genealogico: avevo letto una sua poesia su una serata passata con Bukowski. Quella in cui Hank afferma che può bere birra a volontà, ma di non dargli whisky se no diventa cattivo. E poi attacca a parlare della sua nuova ragazza e dice: voi non sapete che cos’è l’amore. In un’intervista Carver disse che Hemingway era il suo maestro, ma Bukowski il suo eroe. Bastava questa dichiarazione per leggermelo tutto. Mi ricordo bene le vecchie edizioni dei libri di Ray, prima che minimum fax lo rilanciasse: i Garzanti gialli, la collana degli Elefanti; l’edizione Serra e Riva di Cattedrale che poi mio padre mi ha regalato; gli introvabili Pironti che a volte scovo nelle librerie dell’usato, me li porto via per pochi soldi e mi sento come quelli che scoprono un Picasso in un mercatino. Questo per dire che anche la memoria di un lettore è una raccolta di storie: che copertina aveva quel libro, dov’ero quando l’ho letto; c’è stato quello che ho rubato ficcandolo nei pantaloni, e ora che ho tanti amici librai me ne vergogno ma non avevo soldi; quello leggendario perché risultava nelle bibliografie, tutti ne avevano sentito parlare ma non si trovava da nessuna parte; e poi quel libro fotografico, Carver Country, in cui miracolosamente personaggi e luoghi diventavano reali, e potevi vedere con i tuoi occhi la segheria di Yakima, la casa di Chef, la clinica per alcolisti in California, la faccia della moglie di Ray rovinata dalle botte, lo spazzacamino e perfino il cieco di Cattedrale. Ora di quel libro possiedo tre versioni: una americana, una francese e una italiana. La mia collezione di Carver comprende pure la prima edizione autografata di Where I’m Calling From. Penso a lui ogni volta che arriva il 25 maggio perché è il suo compleanno: sembra passato un secolo da quando è morto eppure oggi festeggerebbe i 74 anni, non molti in fondo, di certo non troppi per scrivere buoni racconti. L’anno di nascita, 1938, me lo ricordo sempre perché è lo stesso di mia madre. Gli faccio tanti auguri brindando a whisky e latte come in Vitamine, quando è quasi mattina, la festa è finita e tutti sono ormai crollati, e l’uomo invece di andare a dormire si siede al tavolo della cucina, pensa all’amica della moglie e al mezzo bacio che è riuscito a strapparle, e poi si versa un altro bicchiere deciso a tenere duro.
Poi venne Raymond Carver, ramo dello stesso albero genealogico: avevo letto una sua poesia su una serata passata con Bukowski. Quella in cui Hank afferma che può bere birra a volontà, ma di non dargli whisky se no diventa cattivo. E poi attacca a parlare della sua nuova ragazza e dice: voi non sapete che cos’è l’amore. In un’intervista Carver disse che Hemingway era il suo maestro, ma Bukowski il suo eroe. Bastava questa dichiarazione per leggermelo tutto. Mi ricordo bene le vecchie edizioni dei libri di Ray, prima che minimum fax lo rilanciasse: i Garzanti gialli, la collana degli Elefanti; l’edizione Serra e Riva di Cattedrale che poi mio padre mi ha regalato; gli introvabili Pironti che a volte scovo nelle librerie dell’usato, me li porto via per pochi soldi e mi sento come quelli che scoprono un Picasso in un mercatino. Questo per dire che anche la memoria di un lettore è una raccolta di storie: che copertina aveva quel libro, dov’ero quando l’ho letto; c’è stato quello che ho rubato ficcandolo nei pantaloni, e ora che ho tanti amici librai me ne vergogno ma non avevo soldi; quello leggendario perché risultava nelle bibliografie, tutti ne avevano sentito parlare ma non si trovava da nessuna parte; e poi quel libro fotografico, Carver Country, in cui miracolosamente personaggi e luoghi diventavano reali, e potevi vedere con i tuoi occhi la segheria di Yakima, la casa di Chef, la clinica per alcolisti in California, la faccia della moglie di Ray rovinata dalle botte, lo spazzacamino e perfino il cieco di Cattedrale. Ora di quel libro possiedo tre versioni: una americana, una francese e una italiana. La mia collezione di Carver comprende pure la prima edizione autografata di Where I’m Calling From. Penso a lui ogni volta che arriva il 25 maggio perché è il suo compleanno: sembra passato un secolo da quando è morto eppure oggi festeggerebbe i 74 anni, non molti in fondo, di certo non troppi per scrivere buoni racconti. L’anno di nascita, 1938, me lo ricordo sempre perché è lo stesso di mia madre. Gli faccio tanti auguri brindando a whisky e latte come in Vitamine, quando è quasi mattina, la festa è finita e tutti sono ormai crollati, e l’uomo invece di andare a dormire si siede al tavolo della cucina, pensa all’amica della moglie e al mezzo bacio che è riuscito a strapparle, e poi si versa un altro bicchiere deciso a tenere duro.
In un racconto indimenticabile - Otto scrittori - Michele Mari parlava di Verne, Defoe, Stevenson,
Conrad, Melville, Poe, London e Salgari come di un’unica voce senza tempo, una
specie di dio narratore di storie marinaresche, incarnato di volta in volta in
nomi diversi. Provo lo stesso sentimento per Fante, Bukowski e Carver. È la
voce di un bianco americano, un uomo con pochi talenti e qualche sogno
infranto, che va su e giù per il paese non a caccia di fortuna, ma in fuga da
debiti e matrimoni falliti. Da bere c’è whisky allungato con acqua, oppure birra in confezione da sei. I lavori cambiano sempre, i soldi non
bastano mai, le donne bevono quanto gli uomini e comunque, come diceva Hank,
sono donne di altri: quando gli altri le scaricano le raccogliamo noi.
La firma di Carver che ho sotto gli occhi non assomiglia a quelle degli
scrittori americani che ho incontrato di persona, che sono grandi, tonde, a
tutta pagina, e al collezionista danno soddisfazione. La sua è uno
scarabocchio tremolante. Ray diceva di non amare la sua firma: gli
ricordava le cambiali, i debiti e i due processi per bancarotta che aveva
dovuto subire. Avrebbe preferito non firmare più niente in vita sua. Del
successo raggiunto negli ultimi anni non apprezzava tanto la fama, quanto la stima di se stesso che aveva ritrovato. Era
stato, secondo le sue parole, un fallito, un alcolista, un imbroglione, un
violento, un bugiardo, un ladro. Una faccia nello specchio che preferivi non
guardare, un nome che non ti andava di vedere scritto. Una volta era quasi
morto, e poi era rinato.
La sua tomba si trova a Port Angeles, in un piccolo cimitero in cima a una scogliera. Poco più in basso si infrangono le onde del Pacifico, oltre lo stretto si vede Vancouver Island. Lì finiscono gli Stati Uniti e comincia il Canada. Sulla lapide c’è una delle ultime poesie di Ray:
La sua tomba si trova a Port Angeles, in un piccolo cimitero in cima a una scogliera. Poco più in basso si infrangono le onde del Pacifico, oltre lo stretto si vede Vancouver Island. Lì finiscono gli Stati Uniti e comincia il Canada. Sulla lapide c’è una delle ultime poesie di Ray:
E hai avuto quello che
volevi da questa vita, nonostante tutto?
Sì.
E che cosa volevi?
Potermi dire amato, sentirmi
amato sulla terra.