Dei racconti che ho letto quest'anno, chissà perché, le tre raccolte più belle arrivano tutte dal passato. Starò mica diventando un nostalgico anch'io? Una è La nostra storia comincia di Tobias Wolff (Einaudi 2014). Era da tempo che aspettavo questa antologia, uscita in America nel 2008 ma composta dai racconti di una lunga carriera: ovvero quelli di In the Garden of the North American Martyrs (1981), Back in the World (1985) e The Night in Question (1997), benché l'ultima raccolta in italiano esista già e i lettori come me la conservino tra i libri speciali. Wolff è stato un buon amico di Carver, uno dei pochi (Ray da bravo alcolizzato se n'era giocati parecchi). C'è una foto in cui compaiono entrambi insieme a Richard Ford, nel 1985 o giù di lì: erano scrittori di racconti - un genere che in quel momento, strano a dirsi, andava di gran moda - venivano dagli stessi posti e scrivevano storie crude, tanto che qualche critico aveva coniato per loro la definizione di dirty realism, realismo sporco. Nel libro in cui quella foto compare, Carver parla di Ford e di Wolff come dei suoi migliori amici. Lui era già famoso, gli altri due avevano esordito da poco. Tutt'e tre sorridevano in occasione di qualche evento letterario - Carver con gli occhiali e un vestito grigio troppo abbondante, goffo e fuori posto come al solito; Ford con i capelli lunghi, unti, le guance scavate, quella faccia da rapinatore di farmacie; Wolff con i baffoni e la pelata da zio buono, anzi da zio sbirro - e Ray infine aggiungeva: chissà dove saremo tra vent'anni. Ora che gli anni passati non sono venti, ma trenta, lo sappiamo dove sono quei tre: Carver è morto da un pezzo e abita ormai nel paradiso dei classici, Ford è un pezzo grosso della letteratura americana, Wolff invece si è defilato. Non so perché. In questi trent'anni ha pubblicato un memoir, due romanzi brevi e i racconti contenuti in questo libro. Di cosa parlano? Soprattutto di vigliaccheria, secondo me. E poi dello strumento dei vigliacchi, che è la bugia. E poi di ciò che insorge quando la bugia è smascherata: la vergogna. Molti racconti sono ambientati nell'esercito (Tobias Wolff ha fatto per anni il soldato di professione), molti altri nei college universitari (dove tuttora insegna). Non avrei timore nel definirli racconti morali, nel senso che si interrogano - ci interrogano - su questioni come l'onestà, la responsabilità, il senso del dovere; al loro centro c'è il momento in cui, potendo scegliere, decidiamo se farci avanti o sottrarci, se salvarci la pelle o rischiarla per la pelle di un altro, e quella scelta definisce chi siamo. Viene sempre citato Carver parlando di scrittori di racconti americani, ma qui Carver c'entra poco: il parente più stretto di Wolff secondo me è Richard Yates. Io che organizzo la mia biblioteca secondo questi legami li ho messi uno accanto all'altro sullo scaffale.
Il secondo libro s'intitola Uomini e comandanti (Einaudi 2014) ed è di Giulio Questi, che cominciò a scriverlo negli anni Quaranta e lo finì mezzo secolo dopo. Di anni ne aveva diciannove quando andò partigiano sulle sue montagne - tra la val Brembana e la Valtellina - e ventiquattro quando scrisse i primi racconti, subito notati da Vittorini. Che avrebbe anche voluto pubblicarglieli, solo che poi Giulio Questi cambiò idea sulla propria vocazione, e da Bergamo se ne andò a Roma per fare cinema: aiuto regista, sceneggiatore, attore, e infine regista di spaghetti western e film sperimentali. Visse per un bel pezzo in Sud America, prima di tornare in Italia e lavorare per la televisione. Infine, negli anni Novanta, decise di riprendere quei racconti giovanili, ne scrisse qualcun altro, li raccolse e stampò in proprio qualche copia da regalare agli amici. Non aveva più ambizioni letterarie, a settant'anni suonati. Ce ne sarebbero voluti altri venti perché un editore venisse a conoscenza delle sue storie e le pubblicasse in questo gran bel libro: che parla di partigiani impauriti, smarriti, affamati; di comandanti sbandati da eliminare e comandanti nostalgici a cui disobbedire e comandanti coraggiosi come eroi; di rastrellamenti e imboscate ed esecuzioni; di montagne e montanari. Giulio Questi scriveva con crudezza e ironia. Con una scrittura esperta, allenata a osservare e ascoltare, insieme raffinata e scarna (del resto è sempre così: meno parole usi, più attentamente le scegli). Aveva conosciuto Fenoglio prima che morisse - volevano fare un film da Una questione privata - e non credo che Fenoglio si rivolti nella tomba se dico che Uomini e comandanti mi ha ricordato proprio I ventitré giorni della città di Alba: sono racconti che dialogano tra loro, hanno la stessa amarezza e la stessa ironia, stanno bene insieme. È bello che questo libro infine esista, sarebbe stata una gran perdita se fosse andato smarrito in qualche cassetto o solo nella memoria di chi l'ha scritto. Forse lo pensava anche Giulio Questi, che ha aspettato settant'anni a pubblicarlo ed è morto subito dopo, nel sonno, in pace, alla fine di una lunga vita avventurosa, appena un mese fa.
Infine: sapete cos'è, per un lettore, il ritorno di fiamma? È quella cosa che nella vita non dovresti mai fare, innamorarti un'altra volta di una ragazza che ti ha già fregato in passato. Per il lettore funziona più o meno allo stesso modo: eri convinto di essertela lasciata alle spalle, quella roba che leggevi da giovane, e ripensavi a lei con l'occhio lucido ma anche con un sorriso d'indulgenza, come a dire: sono cose da ragazzi. Invece poi t'imbatti in un libro come Knockemstiff, di Donald Ray Pollock (Elliot 2009), e ci sei di nuovo dentro fino al collo. Non so perché mi sia scappato quando è uscito, forse per il titolo così ostile: ma del resto è ostile anche il luogo da cui prende nome. Knockemstiff - detta anche il Buco - è una cittadina sperduta nell'Ohio meridionale, e il riferimento è proprio alla cara vecchia Winesburg e alla raccolta di racconti che ha fondato il Novecento americano. Solo che Knockemstiff esiste davvero (anzi è esistita: ormai non è altro che un Buco fantasma), ha l'aspetto di un pugno di baracche e case mobili e i suoi abitanti non sono i contadini, i droghieri, gli osti e le massaie di Sherwood Anderson, ma gli alcolisti, i disoccupati, i rapinatori, i vagabondi, i tossici e le prostitute di Hubert Selby Jr., di Breece Pancake e di Denis Johnson, di cui Pollock mi sembra il degno erede. Sono racconti sporchi e cattivi, storie per stomaci forti. Parlano di violenza, di solitudine, di degrado fisico e morale, di vite dannate della cui esistenza preferiresti non sapere. A volte in quello schifo c'è un momento di grazia, a volte la grazia è tutta nella scrittura di Pollock: uno che a Knockemstiff ci è nato e cresciuto, e riesce a guardarci dentro e trovarci qualcosa di così umano da farci venire paura di noi stessi, di ciò che potremmo essere o forse di ciò che in segreto siamo. Era questa, la letteratura americana di cui mi sono innamorato una volta, e che mi lascia secco ogni volta che la ritrovo: libera e selvaggia e bella come un primo amore.