(Ecco l'inizio di un nuovo progetto, o la continuazione di uno vecchio. Dedicato ai due fratelli che mi accompagnarono in quei primi giorni: quello che mi spiegò i nomi degli alberi, quello che mi regalò la bici. Grazie a tutt'e due.)
Uscire dalla porta dell'aereo, di nuovo in città dopo due anni e dritto dalla montagna, è come aprire gli occhi dal sonno e strizzarli alla luce. Non c'è un mese migliore di ottobre per tornare a New York. Il sole del pomeriggio mi manda indietro nelle stagioni fino a un'estate che ormai credevo esaurita da un pezzo, sepolta sotto i maglioni di lana e la prima neve che ho visto cadere partendo. Per via del paesaggio che ho avuto intorno fino a poco fa, appena sbarcato mi sorprendo a osservare non la distesa placida del Queens, né il profilo di Manhattan che vibra all'orizzonte, ma il gran cielo della costa atlantica, le sue nuvole basse e come schiacciate da un peso, la striscia di mare che costeggia l'aeroporto. Sotto i binari della sopraelevata con cui mi avvio in città diventa una zona paludosa: l'avevo mai notata prima? Ed è un airone quello che vedo posarsi tra le canne della riva, accanto a un mucchio di pneumatici incagliati nel fango? Mi ricordavo, sì, di questi atti di guerriglia della natura newyorkese - l'edera sui pali della luce in legno, i gatti randagi nei lotti abbandonati - il suo inselvatichire la città appena volta lo sguardo, e dove è più facile che si distragga. Cerco i nomi degli alberi, camminando verso casa dalla metropolitana. Riconosco l'acero dalla foglia a cinque lobi e il platano dalla corteccia che si stacca come una crosta, lasciando macchie chiare nel tronco. E poi, all'angolo tra Court Street e Carroll, perfino un abete argentato. Oggi non è un abete ma un messaggio per me - è la montagna che mi saluta dopo avermi accompagnato fin qui, come si affida un amico alla sua nuova casa. Chi l'avrebbe mai detto: non le facciate delle brownstone né le zucche di Halloween sui davanzali, ma gli alberi dei giardini di Brooklyn questa volta mi danno il bentornato in città.
Nel cortile sotto casa c'è un fico. Esco a bere la mia birra rituale sulla scala antincendio e ritrovo le piscine gonfiabili, il sapore della Brooklyn Lager, gli steccati dipinti di fresco e i giocattoli dei bambini. Ma il fico non me lo ricordavo: come c'è finito qui? È proprio vero che non cambiano le cose ma solo gli occhi con cui le guardiamo. Così, in un certo senso, passo i primi giorni a confrontare i cambiamenti del quartiere e i miei. Una volta lo giravo a piedi, ora preferisco la bicicletta: nell'euforia per questa estate d'ottobre ne compro una usata con cui andare a zonzo, a fare il conto degli amici dispersi e registrare le novità. Cose che prima non c'erano: un buon numero di negozi e ristoranti, così tanti bambini e scuolabus, le piste ciclabili. Cose che non ci sono più: la casa con le statue dei santi alla finestra e le due vecchie sorelle che ci abitavano; l'emporio all'angolo tra Union e Hicks Street, quello aperto tutta la notte con il commesso che dormiva sul bancone; i capannoni industriali a sud del ponte e i moli dismessi. Lì stanno costruendo un parco. Si chiama Brooklyn Bridge Park e ha l'aria di essere destinato a diventare un posto magnifico, affacciato com'è su Manhattan e il fiume. Lo scopro una domenica, pieno di gente. Avevo mai visto tanti arabi a Brooklyn? Libanesi e siriani di Atlantic Avenue grigliano spiedini d'agnello accanto ai banchi di frutta e verdura dei coltivatori locali, il mercato di cui avevo trovato il volantino. L'altra novità è la Freedom Tower al di là del fiume, dove una volta c'erano le Torri Gemelle, ma impiego poco a decidere che non mi piace. È fredda e ostile, mi trasmette tutt'altro che un'idea di libertà. Cose che sono rimaste uguali: continuo a preferire questa riva del fiume a quella, questi uomini dai baffi folti, queste donne velate, questi ragazzi e le loro bancarelle a quelle torri di vetro di cui non riesco a cogliere l'anima. Avevo una mezza idea di attraversare il ponte in bici, oggi, ma decido di rimandare. Mi ci vorrà un po' di tempo anche questa volta per fare pace con l'isola.
Compro un libro sulla cucina degli immigrati d'inizio Novecento, e un altro sulle autoproduzioni alimentari di questi anni. Comincio a raccogliere idee per un discorso su New York e il cibo. Sarà senz'altro la storia di un'ossessione: questa città non fa che mangiare tutto il tempo, perciò bisognerà indagare la natura della sua inestinguibile fame. Prima, penso, dovrei occuparmi della materia prima - il pane e il vino di New York che cosa sono? Poi dei suoi otto milioni di affamati. Seguendo una traccia partita dal farmers market scopro un fenomeno dilagato mentre non c'ero: sui terrazzi e nei cortili, nei parchi pubblici, perfino nei giardinetti di quartiere, sono spuntati centinaia di orti urbani. Ne visito uno grande come un campo sotto le case popolari di Dwight Street, palazzoni di dodici piani ai cui piedi si coltivano lattughe, cavoli, carote, cetrioli, tutta la verdura d'autunno che tra qualche giorno sarà raccolta e distribuita tra gli abitanti. Imparo anche che l'agricoltura urbana non è una pratica inedita a New York - anzi, si potrebbe riscrivere la storia della città attraverso quella dei suoi orti, che scompaiono nei periodi di benessere e ricompaiono con le crisi: è successo negli anni Settanta così come durante la Depressione, e prima ancora nell'epoca che il mio libro chiama Age of Migration, il quarantennio a cavallo tra Otto e Novecento in cui dall'Europa sbarcarono milioni di immigrati. A quanto pare erano italiani i contadini più industriosi. Sfruttavano qualsiasi terreno libero, in una città che intanto veniva furiosamente edificata, e alla peggio si arrangiavano sui tetti di casa, riempiendo scatole e barattoli con la terra portata via dai cantieri. Così le loro finestre si riconoscevano per il basilico sul davanzale, e i loro cortili, quando ne avevano uno, per un albero che, con il tempo, diventò una specie di bandiera. Ne leggo il nome con stupore: quell'albero era il fico. Possibile che sia una coincidenza? La pianta che ho sotto la finestra non ha certo un secolo, ma secondo Bob, mio amico e padrone di casa, il fico era già lì quando lui è arrivato, una trentina d'anni fa, ed è sicuro che allora ci abitassero degli immigrati, perché ricorda non solo gli orti ma anche le galline e i conigli allevati nei cortili. Il che, a suo parere, riduce le possibilità a due: erano italiani o portoricani. Ora che ci pensa, gli torna in mente perfino una capra. Te lo immagini?, dice ridendo. Adesso vedi le sdraio e le piscine gonfiabili, allora erano capre e galline.
Di mattina dal mio letto ascolto le sirene delle navi. Per colpa del fuso orario è già da un pezzo che mi giro e mi rigiro, sperando di riuscire a dormire ancora un po' prima che faccia giorno. Poi però si sente questo fischio lungo, inconfondibile: in molti quartieri te ne puoi anche scordare, che New York è un porto, ma dove abito io vieni svegliato dai mercantili in partenza, e basta salire sul tetto per vederli prendere il largo. Allora mi alzo, come per un senso di solidarietà verso i marinai in servizio. Mentre aspetto il caffè mi affaccio alla finestra, a osservare il mio fico e i cortili di Brooklyn che una volta erano campi e pascoli. Se il cibo è il legame dell'uomo con la terra, mi dico, allora la mia indagine dovrebbe riguardare questo: i modi in cui le persone si sono impossessate della città, o ne sono state respinte, e i modi in cui la città le ha affamate o nutrite. Tra loro mi ci metto anch'io, non è una posizione più giusta? Non dovrei dire loro, dovrei dire noi. Ci conquistiamo un fazzoletto di terra dove affondare le nostre radici, e subito dopo cominciamo a chiamarlo casa.
Poi prendo la bici ed esco. C'è un bar a Red Hook dove vado spesso, nelle mattine di sole, solo perché mi piace stare un po' davanti al mare prima di fare qualsiasi altra cosa. È nascosto tra gli imponenti, monumentali magazzini di mattoni rossi del tardo Ottocento, conservati con un rispetto per nulla newyorkese, o forse dimenticati per loro fortuna, chissà. Da fuori ricordano i porti del Nord Europa e l'età dell'oro della marina mercantile, ma dentro vanno via via trasformandosi in laboratori e gallerie d'arte, oltre che negli immancabili ristoranti e nei bar come il mio. Anche se in realtà è solo l'angolo di un supermercato: entri dal reparto ortofrutta, superi corridoi di scatolette, arrivi alla caffetteria e da lì puoi uscire a fare colazione in una specie di veranda sul retro. La veranda è affacciata verso sud, così Manhattan rimane alle spalle e tutto quello che si vede è la baia, l'atollo su cui è piantata la Statua della Libertà, la lunga costa industriale del New Jersey e quella più verde di Staten Island, e poi il ponte di Verrazzano che la collega con Brooklyn. Ora l'acqua è più pulita di un tempo e il viavai di battelli e navi molto meno caotico, e tra i motoscafi della polizia e le petroliere capita perfino di vedere qualche barca a vela. Oltre il ponte c'è l'oceano aperto. Ma è difficile notarlo se non lo sai, è solo un breve tratto di mare nella foschia: sembra un punto dell'orizzonte senza nessuna importanza, non si direbbe che siamo arrivati tutti da lì.